Il riferimento dantesco è al felice esito delle operazioni di recupero dei 33 minatori rimasti intrappolati per oltre due mesi nella miniera di San José a 625 metri di profondità nel sottosuolo di quel Cile che, come ha scritto Luis Sepulveda, è un paese che cresce nelle tragedie.
La copertura mediatica favorita da Internet e culminata nella giornata di ieri, che ha fatto seguito ai quotidiani aggiornamenti diffusi in tutto il mondo dal 22 agosto (giorno in cui i 33 sono riusciti a comunicare di essere vivi e in salute dopo 17 giorni dal crollo del 5 agosto che aveva bloccato accessi e vie di uscita), ha ricordato le dinamiche di uno dei tanti reality show che caratterizzano l’offerta di intrattenimento televisivo da dieci anni a questa parte.
Altra differenza, amara: negli pseudo-reality che la TV propina al pubblico, chi esce – e si dimostra un personaggio, seppur opinabilmente – trova lavoro, nel mondo dello spettacolo o in uno dei suoi satelliti. Per i minatori le prospettive sono molto meno glamour: la società di cui sono dipendenti è destinata al fallimento e loro rimarranno senza occupazione e forse anche senza liquidazione.
I riflettori puntati sul Cile – uno dei pochi temi interessanti nel panorama informativo offerto in TV in questo periodo, che si è guadagnato attenzione forse proprio per l’intrinseco meccanismo reality-style – hanno fatto luce su aspetti sconosciuti a molta parte del mondo, innanzitutto la situazione della miniera di San José – chiusa e riaperta per tre volte – e i problemi della sicurezza di questi lavoratori (solo nel 2010 si erano verificati altri incidenti con morti). Spenti i riflettori, ci potrà essere spazio per una svolta o si sarà trattato “solo” dell’unico vero reality?