"A Roma non si può fare, altrimenti poi ti menano". Analisi sul castello di schifezze che nasconde questa frase

Creato il 18 agosto 2015 da Romafaschifo

"A Roma non si può fare perché altrimenti ti menano". 

Tra i tantissimi commenti scatenati dal nostro articolo di ieri che raccontava, per immagini, un controllo da parte di alcuni controllori in borghese nella metropolitana di Berlino, forse questa tipologia è quella più triste e amara.

A Roma non si può perché anni di squallore e lassismo, secondo alcuni, avrebbero spinto le persone a trasformarsi in bestie rabbiose. Pronte ad aggredire e a malmenare perfino un pubblico ufficiale.

E' triste constatare come dei cittadini anche attenti e impegnati o comunque un minimo consapevoli (tali sono in media i frequentatori del nostro blog), appaiano essersi totalmente arresi (forse per pigrizia mentale?) nei confronti di uno status quo vero fino ad un certo punto. Nei confronti di una lettura superficiale, quando non caricaturale, dei problemi della città.

Perché poi scopri che a New York perfino Rambo si mette in fila buono buono e paga il suo biglietto prima di entrare nel bus. Poi scopri che negli anni Novanta nel Bronx e ad Harlem c'erano più di 1000 omicidi violenti l'anno, ma il governo della città partì proprio dai biglietti dei bus e della metro per far capire alle persone che l'aria era cambiata e che d'ora in avanti sarebbero stati controllati e la città non era più terra di nessuno. Poi scopri, soprattutto, che i presunti pericolosi coattoni romani quando mettono piede fuori dall'Italia si trasformano in mansuete mammolette pronte a obbedire a chiunque, anche all'ultimo dei controllori mingherlini e pallidini.

(a tal proposito si legga cosa dice oggi Antonio Preiti sul Corriere della Sera)

Ma poi qualcuno crede davvero alla storia che i peggio criminali di San Basilio. Ostia e di Torbellamonaca (che pure ci sono e sono realmente pericolosi, loro sì) utilizzino l'autobus per spostarsi e non qualche motocicletta o ottomila cilindri o qualche fuoriserie acquistata grazie al fiume di denaro sporco ricavato dai traffici illeciti di droga, prostituzione e armi?

E allora di cosa stiamo parlando? Di quale città stiamo parlando? Quanto è vero il racconto di una Roma violenta e quanto invece si tratta di una città che abbaia molto, ma morde pochissimo consapevole che basti e avanzi abbaiare per spaventare i più? Quanto ha ragione chi vuole raccontare una città pericolosissima e violentissima, con persone pronte in ogni angolo a malmenare il prossimo? 

Non sarà mica una scusa? Non sarà mica che qualche "ahooo te gonfiooo anagabido anagabonzo" sia stato più che sufficiente per qualche gruppo di prepotenti per bloccare ogni visione civica normale? Ciò che in tutta Italia è considerato al più folklore buono per scrivere qualche scenografia vanziniana, qui, proprio qui dove quel folklore è nato, si trasforma in elemento bloccante per lo sviluppo e il progresso? Ma quanto è paradossale tutto ciò?

E poi, cosa ancor più grave, questa paura potenziale di reazione violente da una parte genera quelle reazioni stesse, dall'altra ti fa vivere in un contesto violento anche quando la violenza non si è generata affatto. Se continui a dire "non si può fare perché poi ti menano", "non si può riqualificare perché poi vandalizzano", sei esattamente tu che generi le precondizioni ideali, l'humus perfetto per far nascere quelle violenze e quei vandalismi i quali, nel momento in cui si creano, non sono più affatto qualcosa di anomalo e inaccettabile, bensì qualcosa di assolutamente previsto e, dunque, normale.

Ci obblighiamo a vivere vittime della violenza e della prevaricazione. E la nostra paura assieme alla nostra pigrizia riscaldano il brodo di cultura di queste violenze. Il tutto per esorcizzare il nostro timore di cambiare. E così la violenza e la prepotenza di quattro sfigati e coatti, che in tutto il mondo verrebbero derisi e presi per i fondelli dalla città, governano le scelte di una capitale europea. Echeggiano nelle parole dei dirigenti delle società di trasporto pubblico ("abbiamo bisogno di recuperare l'evasione del biglietto, ma non possiamo perché ci sono i violenti"), tornano nelle affermazioni bizzarre degli assessori ("eh ma voi parlate senza conoscere la situazione di Roma", ci ha detto - a noi! - Stefano Esposito) e infine atterrano nella vulgata dei commenti su Roma fa Schifo: "a Roma non si può perché te menano". 

"Eh ma poi te menano". Una scusa. Una circostanza che si verifica soprattutto se la evochiamo. Un problema che, semmai, non è romano, bensì italiano e attiene alle nostre leggi e alla nostra magistratura, ad oggi (per quanto ancora?) incapace di punire chiunque si comporti male.

I prepotenti sono presenti in forze nella nostra città, nessuno lo nega (semmai si negano gli eccessivi allarmismi sulla loro pretesa e presunta pericolosità), ma sono loro che devono adeguarsi a noi, sono loro che devono cambiare, non siamo noi che dobbiamo cambiare adeguandoci a loro. Sono loro le figure inferiori che necessitano di rieducazione. E verso di loro deve direzionarsi l'attività legislativa: per sconfiggerli e ghettizzarli, non per renderli normalità.

Ecco perché a Roma chi gestisce il trasporto pubblico locale - Atac, Cotral, Ferrovie e relativi assessorati che politicamente sovraintendono alla macchina dando input sbagliatissimi - si prende una grande responsabilità ad aggirare il problema dell'evasione invece di affrontarlo: non è solo un problema finanziario ma è il primo touch point delle persone con lo stato. Esci la mattina, vai verso scuole verso il lavoro (o esci la sera e vai a divertirti), e come prima cosa salendo sul mezzo pubblico ti rendi conto se l'autorità è presente oppure se c'è l'anarchia più totale. E poi ti comporti di conseguenza. Prima ancora che un problema finanziario, dunque, imporre alle persone di rispettare le regole (anche con la forza quando serve) è un problema sociale. Far pagare a tutti, con evidenza, il biglietto dell'autobus insomma non solo risolve i conti di Atac, ma risolve i comportamenti di centinaia di migliaia di persone oggi abituati a subire - i rassegnati del "non se poffà" - o ad approfittarsi - i violenti che "menano" - dell'anarchia. Cittadini che domani potrebbero cambiare semplicemente se chi di dovere lavorasse per modificare la china di abitudini e prassi sbagliate e socialmente dannose.

Davvero pensate che a Londra o a New York si paghi con rigore quando si sale sul bus solo per motivi finanziari e per non far andare in deficit l'azienda del trasporto pubblico (a New York peraltro, se non ricordiamo male, il segno meno è fisso da sempre)? Niente affatto. Quell'atto, quel passaggio, è un messaggio che l'autorità dà al cittadino: ti controllo, non ti faccio muovere se non fai il tuo dovere, sappi che ti devi controllare bene perché io ci sono e quando utilizzi i beni comuni non sei a casa tua. Anche se in Italia si tende a pensare che così generi dei cittadini sottomessi, noi siamo convinti che così faciliti l'emersione dei sentimenti di rispetto del prossimo, e soprattutto di rispetto degli spazi comuni e condivisi. Spazi che dovunque sono "di tutti", in Italia sono "di nessuno". E il fatto che nulla venga controllato valorizza la seconda, sbagliatissima, percezione. Se ti senti controllato e scandagliato quando sei in uno spazio comune tenderai a comportarti in maniera più rispettosa anche a lavoro, allo stadio, al ristorante, per strada. Avrai la sensazione che qualcuno misura il tuo stare al mondo e magari sanziona quando questo stare al mondo travalica le regole.

Quello del trasporto pubblico è emblematico - e per questo insistiamo molto - perché è uno dei pochi casi in cui modificare le abitudini dei cittadini imponendo un upgrade non solo non costa nulla, ma genera un guadagno netto di decine di milioni di euro. Non procedere, nel 2015, significa davvero affogare in una pozzanghera di incapacità e cattiva fede. 

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