Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno sopra di sé, né piu’ in alto.
Dando un’occhiata in giro, scorreva tutto quel recinto, i pendii, il fondo, le strade praticate là dentro. Quella che a gomiti e a giravolte, saliva al terribile domicilio, si spiegava davanti a chi guardasse di lassu’, come ad un nastro serpeggiante; dalle finestre , dalle feritoie, poteva il signore contare a suo bell’agio i passi di chi veniva, e spianargli l’arme contro, cento volte.
E anche d’una grossa compagnia, avrebbe potuto, con quella guarnigione di bravi che teneva lassu’, stenderne sul sentiero, o farne ruzzolare al fondo parecchi, prima che uno arrivasse a toccar la cima. Del resto, non che lassu’, ma neppure nella valle, e neppure di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal padrone del castello.
Il birro poi che vi si fosse lasciato vedere, sarebbe stato trattato come una spia nemica che venga colta in un accampamento. Si raccontavano le storie tragiche degli ultimi che avevano voluto tentar l’impresa; ma eran già storie antiche; e nessuno de’ giovani si rammentava d’aver veduto nella valle uno di quella razza, né vivo, né morto.
Alessandro Manzoni, "I promessi sposi" Capitolo XX°. Fabio Viganò.