... è così che pensava, perché è così che si pensa; quando viviamo la tragedia ci sembra d'interpretare un ruolo non nostro, di essere finiti nel palcoscenico per via di un madornale equivoco, eppure, come nei sogni, non riusciamo a usare la voce, non protestiamo né muoviamo un dito perché la faccenda si chiarisca, anzi ci lasciamo scritturare, assecondiamo la scelta, impariamo la parte nell'atto stesso di interpretarla, come se non potessimo fare diversamente, come se in platea ci fosse un pubblico che non merita d'essere deluso... (p. 37)
Non è in discussione qui il merito di una scrittura valida e densa, a tratti commossa: il mio libro è tutto segnato per il sorprendente intuito dell'autore in merito al vissuto umano. Ma se un appunto va mosso a questo elegante breve romanzo di De Silva è quello di un'occasionale forzatura di un ideale discorso indiretto libero (che in parte può spiegare l'attestarsi sistematico delle interrogative indirette sull'indicativo). Talvolta mi sembra di non sentire più Nicola e Irene - due personaggi molto forti e interessantissimi - perché lo spazio viene improvvisamente lasciato a una voce che non conosco e che, semplificando, attribuirei all'autore (più o meno) implicito della storia, che astrae e porta il lettore lontano da queste due dolorose esistenze. L'effetto è quello straniante di un continuo tuffarsi e riemergere dal tessuto narrativo, nell'alternarsi sempre più creativo di voci contro quest'incontro che il destino sembra voler scongiurare. Rimane il fatto che Mancarsi è un romanzo illuminante e, in più passi, capace di commuovere, anche più che emozionare: un primo approccio ottimo a De Silva, che nella felicità e nell'espiazione affronta due temi a me carissimi, a un autore che credo entrerà ancora, e spesso, nella mia libreria, ergo nella mia vita.