A volte il treno sbagliato ti porta alla stazione giustaLunchbox

Creato il 12 gennaio 2014 da Tiziana Zita @Cletterarie

Ila cucina ogni giorno dei prelibati manicaretti per suo marito, riempie il suo cestino per il pranzo, il lunch box, lo mette in una sacca e lo consegna al trasportatore. L’uomo è pagato per recapitarlo al marito, per la pausa pranzo al lavoro. Con l’aiuto delle ricette di sua zia, Ila spera che la strada per il cuore passi davvero per lo stomaco. Suo marito infatti è fuori casa tutto il giorno e, una volta tornato, la ignora. Quando Ila gli parla, ottiene poco più che un’eco dei suoi monologhi. Ila affida quindi l’ultima speranza di ritrovare il marito ai suoi lunch box. Peccato che a mangiarli sia qualcun altro! 

Saajan è un impiegato che dopo trentacinque anni di lavoro svolto diligentemente sta per andare in pensione. Dovrebbe cominciare il training per il suo giovane e petulante successore, ma rimanda continuamente. Pranza da solo in mensa, cena da solo a casa e dopocena si fuma una sigaretta sul terrazzo, guardando la numerosa famiglia del palazzo di fronte, riunita intorno alla tavola. Ma un bel giorno il lunch box, che ordina regolarmente in un ristorante perché non ha nessuno che possa prepararglielo, è diverso. Molto diverso. E’ ottimo.
Lunchbox, gradevole film indiano passato a Cannes quest’anno, inizia così, con uno spunto tanto semplice quanto ricco di possibilità. Un potenziale che il regista sviluppa con un preciso gioco di corrispondenze, anche visive tra i due poli del racconto, Ila e Saajan.

Ila scopre subito che il suo lunch box non è stato golosamente ripulito dal marito, ma da uno sconosciuto che lo ha ricevuto per sbaglio. Gli uomini delle consegne non sbagliano mai, lo sanno tutti, eppure suo marito ha mangiato un altro pranzo. Su consiglio della zia, vivace dea ex machina (che non vediamo mai, abita al piano di sopra e le due si parlano sempre dalla finestra), Ila l’indomani inserisce nel lunch box un biglietto di ringraziamento perché finalmente qualcuno ha apprezzato i suoi sforzi culinari. Saajan risponde con una sola frase: “C’era troppo sale”. Ila si arrabbia e la zia le suggerisce una piccola vendetta a base di tanti peperoncini. Con impazienza legge la risposta dell’affamato sconosciuto: “Buono, ma c’era troppo chili”.

Inizia così una corrispondenza quotidiana su semplici fogli di quaderno. Saajan e Ila conducono delle vite sostanzialmente solitarie e anonime che si animano improvvisamente proprio grazie a quei biglietti. Da qualche parte nell’immensa e caotica Mumbay c’è qualcuno che, in modo forse minimo ma essenziale, si interessa a loro. E così Saajan ritrova la capacità di aprirsi agli altri, mentre Ila ha finalmente qualcosa da aspettare, qualcuno che le parli veramente, pur non avendola mai vista (guarda il trailer).

Saajan le racconta della sua defunta moglie e le scrive di quello che vede all’uscita dal lavoro. Le confida anche le sue difficoltà ad adattarsi al presente. “Ora ci sono tante persone e tutte vogliono quello che hanno gli altri.” Ed ecco che d’un tratto Mumbay diventa il mondo e la tenera storia fuori tempo di Saajan e Ila diviene rappresentativa di un disagio più profondo e universale. Nelle difficoltà quotidiane, negli impegni di lavoro e nelle situazioni in bilico che ci aspettano a casa, si perde sempre di più il senso di un contatto umano. Gli scambi, quelli veri, intensi, di anime paiono tanto più ardui quanto maggiore è la contiguità fisica. Nell’era delle mail e dei cellulari quei semplici, poveri fogli di quaderno, scribacchiati a penna, si trasformano nell’unico momento di comunicazione. Sono un segno d’affetto tangibile, almeno quanto le delizie cucinate da Ila e mangiate da Saajan.

Ila in quei piatti mette tutta sé stessa e aspetta con impazienza il pomeriggio, quando il lunch box le viene restituito. Mentre nelle sue lettere comunica il disagio nel rapporto col marito, vivo ma assente quanto la defunta moglie di Saajan, e la tristezza per la malattia del padre e quella dello zio. Saajan è molto più grande di lei eppure paradossalmente ha imparato a guardare le cose con più ottimismo, o rassegnazione, e nei suoi biglietti le trasmette la sua saggezza malinconica.

Ritesh Batra costruisce pranzo dopo pranzo un film delicato, che vive di piccole cose. Come gli sguardi di sottecchi di Irrfan Khan, il bravissimo protagonista, dalla recitazione misurata (The Millionaire e Vita di Pi) ma capace di lampi improvvisi e coinvolgenti. Quel lunch box infuso del tocco magico di Ila forse non aveva sbagliato destinatario ma, come per fortuna capita spesso nella vita, era arrivato proprio là dove doveva. Dove serviva. E il finale, a levare, sospeso e lasciato all’immaginazione dello spettatore, riecheggia il leit motiv dell’intero film: a volte il treno sbagliato ci porta alla stazione giusta.


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