Sembra incredibile, ma non bastò un Mondiale conquistato con tenacia in terra tedesca, no. A settembre l’esordio nell’anonimato tra i cadetti contro il Rimini rappresentò una botta dura, soprattutto in previsione del purgatorio da riscattare. C’era però anche chi aveva stretto i denti ed era restato. Gigi Buffon sarebbe potuto andare a svernare ovunque e profumatamente retribuito – Spagna, Inghilterra –, invece eccolo tra i pali come sempre, persino sui campetti spelati della periferia italica. E con lui Camoranesi, il grugno ancora più torvo, l’olimpico David Trézéguet lì davanti a far carambole. Ma soprattutto Alex Del Piero, capitano coraggioso, nella buona come nella cattiva sorte, con un sorriso appena più tirato del solito. Fu un momento strano: ingrato, umiliante, eppure avvincente. A Treviso come a Frosinone, a Leffe come a Crotone, sugli spalti gremiti all’inverosimile la gente si accalcava intorno al recinto di gioco per vedere i giocatori fin nel bianconero degli occhi. Manco fosse Manchester, Berlino o Madrid. No, non era l’atteggiamento di chi spia con curiosità malsana la nobile decaduta, o peggio se ne fa beffe. Si trattava della passione autentica di chi sa che si trattava di un’occasione irregolare che non si sarebbe ripetuta presto, quella di ammirare i campioni dei sette mari abbeverarsi alla fontanella sotto casa.
La scontata promozione non segnò un ritorno facile ai vertici. La squadra pareva essersi smarrita: scelte societarie malcalcolate, altre finanche sbagliate, innesti dal rendimento discontinuo, confusione tecnicotattica, allenatori fagocitati – compresi Deschamps e Ferrara, due cresciuti nell’orto domestico. Ma sul terreno di gioco, pur nel disorientamento spaziotemporale, nei risultati mancati, affondavano le loro radici Buffon e Del Piero, e i giovani intorno crescevano, finivano per convincere. Chiellini primo su tutti.
La sterzata arrivò l’estate scorsa: si capì all'istante, nel momento in cui il nuovo antico timoniere Conte strinse i pugni e cominciò a incitare i suoi. Lavoro, applicazione, carattere, fiducia nei propri mezzi. La squadra smise a poco a poco di traccheggiare e prese ad andare via rapida, ranghi serrati; la palla tornò a correre sulle zolle, le casacche bicromate a spostare in alto il baricentro, il gioco a farsi organizzato come da lustri non si vedeva. Pirlo, Vidal e Marchisio la colonna vertebrale, alle spalle la difesa meno battuta del campionato. E zero sconfitte, record assoluto. I tifosi mnemonici cominciarono con i paragoni: Conte come il maestro Lippi, come Guardiola, persino come Sacchi (maddài). Quelli più scafati invece andarono indietro alla grande Juve del Trap: non il parterre de Roi Michel, ma prima, fine anni ’70, lo scudetto dei 51 punti su 60, una squadra rullo compressore, spalle d’acciaio e polmoni da palombaro. Giorno dopo giorno affiorava il volontà di chi conosce i propri limiti ma ci lavora su con coscienza e dedizione, fino a perderci il fiato. Soprattutto si liberava sempre più consapevole l’orgoglio di chi sa di aver passato la nottata. Era ora di smettere di guardare la classifica dal basso verso l’alto e prendersi ciò per cui si era faticato. Così, dopo quell’estate del 2006, dopo una retrocessione e altre sventure, un tempo assurdamente lungo da digerire, la ruota ha fatto un giro completo e si è fermata infine sulla casella vincente.