Opera anti convenzionale, volutamente inintelligibile, ermetica e ricca di citazioni, "Abacuc" provoca il pubblico, sfidandolo a decifrare il misterioso protagonista. Nome da profeta biblico e gestualità ridotta al minimo, Abacuc sembra non poter far altro che prendere atto della fine di un'umanità autoreferenziale e senza speranza. Si muove tra architetture mostruose, sempre vuote, desolanti.La cifra stilistica di Abacuc è la ripetizione, sia sul piano visivo che sonoro. Tornano di frequente tombe private, loculi, edifici funebri anche monumentali. Accuratissimo il lavoro sul sonoro: un commento spesso dissonante, disturbante, a cura di Dario Agazzi, compositore dei pezzi originali con effetti di riavvolgimento e stratificazione vocale e autore anche delle "composizioni verbali", ossia delle litanie stranianti e ironiche che costellano il tempo vuoto di Abacuc, elenchi di affermazioni in assonanza surreali come «leggo Lacan/ vado in montagna» o «leggo Adorno/guardo film porno».In questo film così criptico, l'unica cosa chiara è la volontà di tornare all'essenzialità del cinema, sfruttando le risorse della sua povertà: bianco e nero, super 8, recitazione da muto, camera, per lo più fissa, rivolta a set familiari, delimitati, orrendi. Abacuc è un poema per immagini e suoni che canta l’esistenza dell’eroe eponimo, un omaccione di circa duecento chili di incredibile potenza espressiva. Corpo-oggetto che, a dispetto del peso, si libra leggero all’interno delle inquadrature.
Certo, non è un’opera per tutti, ma, superato l’impatto iniziale, si rivela un’esperienza visiva emozionante.Riccardo Supino