La cosa non dovrebbe sorprendere tenendo conto dell'andamento della nostra economia, al netto della propaganda a favore del nuovo governo Monti. Nuovo forse solo nei nomi ma non certo nelle politiche. Da dicembre ad oggi, sotto il profilo della politica economica, non si sono registrati elementi di reale discontinuità. Si diceva che occorresse "spegnere l'incendio" e si è chiesto ai contribuenti di mettere ancora una volta mano al portafoglio per fronteggiare l'ennesima crisi delle casse pubbliche causata da decenni di gestioni allegre e da tsunami finanziari generatisi ben al di là del confini nazionali.
Pare essere lapalissiano, quasi banale, ma il problema dello spread è legato alla impossibilità della nostra economia di crescere - con l'attuale livello di tassazione - in maniera tale da garantire il finanziamento di un debito pubblico sempre più importante (e in aumento).
E' davvero incredibile l'incapacità, anche da parte dei cosiddetti tecnici, di porre in essere politiche innovative o semplicemente liberali. Così come risulta essere altrettanto incredibile che l'aggettivo liberale abbia assunto una connotazione negativa nell'uso comune.
Considerando le politiche attuate finora dal governo troviamo una serie di provvedimenti ispirati all'etica del sacrificio. La riforma pensionistica è stata davvero una tremenda mazzata, non tanto per il passaggio al contributivo (misura sacrosanta) quanto perché è già possibile prevedere l'uso che verrà fatto dei soldi così ottenuti.
Il contributivo dovrebbe essere propedeutico alla possibilità di scegliere quando andare in pensione, godendo degli accantonamente compiuti in un certo numero di anni. Peccato si sia partorito un monstrum per il quale si è riusciti nell'impresa di sommare la parte più sfavorevole di contributivo e retributivo: del primo si è preso l'aspetto della responsabilità e della proporzionalità della pensione rispetto a quanto versato mentre del secondo si è mutuata la impossibilità di poter scegliere il momento nel quale andare in pensione. Il risultato è stato quello di creare un ibrido che inchioda le persone sul proprio posto di lavoro, in prospettiva, fino ai 70 anni in un contesto di sistema contributivo. Il tutto con il semplice obiettivo (sempre il solito) di fare "cassa".
Circa la tanto sbandierata riforma del mercato del lavoro ci sono da dire alcune cose. Prima di tutto la bozza che il parlamento si appresta a votare non incide quasi nulla sul drammatico tema della precarizzazione del lavoro. Affermare che il lavoro precario dovrà costare di più non significa assolutamente nulla, dato che non si capisce chi dovrebbe sostenere i maggiori costi (o forse lo si capisce fin troppo). In secondo luogo non si fa assolutamente niente per riassorbire, riqualificare, chi in questi anni ha perso il lavoro. Presso i principali Paesi europei chi perde il posto ha la possibilità di percepire un assegno di disoccupazione e frequentare corsi di riqualificazione professionale in una prospettiva concreta di trovare un nuovo lavoro. Le agenzie per l'impiego funzionano ma non è certamente esclusa la possibilità che sia il singolo ad attivarsi per trovare una nuova collocazione. Quando l'ufficio chiama per offire il lavoro e il disoccupato lo rifiuta, perde il sussidio.
Si tratta insomma della saggia, vera, riforma del mercato del lavoro che avrebbe voluto introdurre in Italia il sen. Pietro Ichino che, dal canto suo, in un Paese come il nostro ha sbagliato (sotto il profilo comunicazionale) nel parlare di riforma alla "danese". Si tratta della cosiddetta flexsecurity, capace di coniugare la flessibilità competitiva con le sicurezze sociali tipicamente europee.
Le opposizioni alla proposta Ichino sono state quasi tutte stucchevoli e cretine: si è detto che gli italiani non sono danesi, che la riforma sarebbe costata troppo, che i nostri uffici di collocamento sono impossibili da far funzionare, addirittura che una simile proposta se realizzata avrebbe potuto favorire (per chissà quale motivo) la criminalità organizzata.
In realtà la proposta partorita dal governo Monti è puramente tendente a compiere risparmi e a disinnescare l'art. 18 (in maniera non del tutto "virtuosa"). E' una riforma a carico delle famiglie, dei singoli, di quel welfare privato che consente ai figli di campare sulle spalle dei padri.
La prospettiva giusta, per una vera riforma del lavoro, poteva essere quella di abolire i contratti precari e ammettere legislativamente solo il lavoro a tempo indeterminato con annessa possibilità di licenziare. A fronte però di un potente investimento volto a mettere a regime la già citata flexsecurity (si è vista, in questa anni, la portata micidiale delle cosiddette riforme a costo zero).
Sarebbe stato utile abolire la cassa integrazione sostituendola con assegni di disoccupazione all'interno di in un contesto di riqualificazione professionale funzionale al reinserimento nel mercato del lavoro. Inoltre si sarebbe dovuto agire, legislativamente e fiscalmente, sulle vergognose discriminazioni anagrafiche che tagliano fuori da qualsiasi possibilità di impiego centinaia di migliaia di over 40 (tutto ciò si somma all'innalzamento dell'età pensionabile e dall'introduzione del contributivo): se infatti si sostiene che il lavoro deve essere flessibile (e quindi si mette in preventivo di poterlo perdere almeno una volta nella vita) è semplicemente inaccettabile che continuino a sussistere discriminazioni sull'età.
I media sostenevano che queste riforme avrebbero calmato i mercati finanziari. Qualcuno ci stava anche credendo, vista la discesa dello spread nelle ultime settimane. In realtà il differenziale è sceso perché la BCE ha dato paccate (queste sì) di miliardi alle banche, le quali hanno poi pensato bene di reinvestire i quattrini ottenuti nel debito sovrano degli stati membri (facendo scorpacciate di titoli invece che sostenere il settore produttivo in modo tale da favorire la ripresa). Dovrebbe infatti essere ormai chiaro a tutti che senza ripresa economica lo spread non scende. Ancora una volta le banche, invece di scommettere sull'economia reale, hanno preferito rimpinguarsi di titoli che promettevano importanti plusvalenze a fronte di un ridicolo tasso dell'1% stabilito dalla BCE sul capitale prestato. Ancora una volta non si è capito che è necessario favorire una nuova epoca di responsabilità bancaria e che bisogna investire sulle economie reali, obbligando se necessario le banche ad immettere liquidità nel sistema. A tale proposito una cosiddetta Tobin tax dovrebbe riguardare, più che i mercati finanziari in quanto tali, le banche che si rifiutano di investire in imprese e famiglie.
Infine il problema delle tasse. La più grande macina al collo dell'economia italiana dopo l'euro. Con la lira si facevano svalutazioni competitive (un po' come la Cina ai nostri danni). Allo stato attuale l'unica possibilità che l'economia italiana ha per ripartire non sono certo le finte liberalizzazioni del governo Monti ma un pesante, potente, abbattimento della pressione fiscale affiancato dalla una semplificazione burocratica e da una vera rifondazione della giustizia civile. Senza queste vere e difficili riforme (attuabili soltanto con una forte riduzione della spesa dello stato e delle regioni) non c'è alcuna possibilità per il nostro Paese di risollevarsi, di riconquistare la fiducia dei mercati e soprattutto (quel che più conta) la fiducia degli stessi italiani.