Abele Longo: poeta salentino nel fumo di Londra

Creato il 27 giugno 2013 da Cultura Salentina

27 giugno 2013 di Augusto Benemeglio

Fischiettando in bicicletta

La poesia, eterna e povera, è quel triste oro – come dice Borges – che torna sempre, come l’aurora e il tramonto, la rosa e Milton. E somiglia a tante altre cose misteriose. La poesia di Abele Longo somiglia ad una  specie di film in versi e immagini, sospeso tra realismo e surrealismo, ironia e dramma, creatività e discrezione. Non a caso Abele insegna storia del cinema italiano presso la Middlesex University  di  Londra  ed è un salentino che  nel proprio Dna conserva intatti i cromosomi del viaggio, delle differenze, delle diversità. Anche lui, come Fabrizio De Andrè, il poeta della canzone,  è il cantore dei deboli, degli sconfitti, di coloro che vengono  sterminati “sul fiume Sand Creek” di “ Memorie di un guerriero Cheyenne e di Fabrizio De Andrè (“Si sono presi i nostri cuori sotto una coperta scura/sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura/fu un generale di vent’anni/occhi turchini e giacca uguale/fu un generale di vent’anni/figlio di un temporale/ Ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek).

Quel che conta nella poesia è l’incendio vitale della parola nell’estasi di una sera che non sarà mai notte, che si fa arte e memoria antica di un’Itaca  di verde eternità (l’Itaca di Abele è un paesello del Salento che si chiama Depressa  e somiglia tanto alla  Cocumula di Bodini), ma la poesia non è fatta di prodigi, fa parte dei nostri giorni che sono di solito una rete di comuni miserie, e ne registra, scandisce il respiro, il fluire, il senso delle cose della vita, che va sempre più seppellendosi sotto macerie di ingiurie viltà retorica banalità perdita di forma cialtroneria.  Ed ecco  perciò il grottesco  il kitsch che ci sovrasta  ed ecco l’angelo con “alucce rade ed ispide di gel”. E poi  memorie dell’infanzia, di sopraffazione e violenza, ordinarie piccole immonde  cose di “Tristizia” (“padre che sotterra la pensione/affoga i cani nel pozzo”). Spesso lo sguardo che noi gettiamo sul mondo non è  realtà  ma  solo teatrino d’ombre e di metafore appese al filo dell’insignificanza, un  passaggio da una cosa all’altra sempre uguale: “incrostati  da grosse sere di solitudine/noi  cerchiamo  l’introvabile, scaviamo  a vuoto per trovare il mito – che al confine del giorno sta sempre in agguato -  e ci imbattiamo in una  “Demetra”  “rimasta sola/una vedova (che) /va consolata in famiglia/assicurano i medici/toccandole per questo/le carni ancora giovani”.  A volte ci appare nelle sere  un volto e ci guarda dal fondo di uno specchio: l’arte, in fondo,  è come quello specchio che ci rivela  il nostro stesso volto. Quel che conta in uno scrittore  è che la parola, anche rovesciata,  diventi  “azione”  concreta, torni ad essere  creazione, allargamento del mondo e testimonianza, e non vuota eco  di sé  e ripetizione di bello stile, che nasconde  spesso qualche eczema, come diceva Camus.. Bisogna parlare de “Le cose di una vita”, // una striscia di case sul mare/un branco di cani/l’inverno dei tossici randagi”, di memorie e fantasmi lievi che la notte ci vengono a tirare i piedi dove s’è annidata la coscienza.

Ecco, questo potrebbe essere  il senso della ricerca del poeta,  un angelo  barocco in esilio  tra le nebbie  e i fumi di Londra, pieno di risonanze  e di pessimismo  cosmico,  di trombe e luci crepuscolari; un povero Odisseo  salentino senza via di scampo, che va in giro con  il senso della propria coscienza esiliata, un minotauro  d’aerea grazia e leggerezza che se ne va in giro  “Fischiettando in bicicletta”// ma mentre fischietta/ i denti si ficcano nella/ catena, sono le budella /la camera d’aria e la testa/dinamo che gira e sfavilla”

Semiotica degli affetti

Tutte le poesie conservano lo stesso stupore che hanno le cose  al primo sguardo, sono come frammenti  di  immagini irrelate  da prendere in corsa prima che sia troppo tardi , sono flashes, click improvvisi e frementi  che offrono la capacità di ri-trovare  il “silenzio e l’ombra” leopardiani, o i sogni e le favole, le cantilene  della nostra lontana infanzia, la “Ninna nanna in fondo al mare”.  Dal Re Artù a cavallo e l’asino arpista del mosaico della cattedrale di Otranto  alle “troie notturne/con le labbra rotte”; dai muri a secco  su cui volava Giuseppe Desa, il Santo di Copertino,  ai “vermi”  di Stormy Weather  “maciullati dall’insania / di piste fuori strada”; dai morti che vanno a Leuca  col cappello in testa per cercare la via del   paradiso al mitico Re Artas  degli antichi messapi  e infine a Il re della Pizzica. (Furono donne tenere a inventare/le tarante sull’aia intorpidite/ e come cardi duri a sanguinare/accordi di tabacco sui telati”)

C’è, qui dentro, come direbbe Eliot, “un mucchio di immagini infrante, frammenti su cui ho appoggiato le mie rovine”, ma c’è anche Totò l’eroe che si fonde  ironicamente, grottescamente con la “Buona novella”  e la “La guerra di Piero” , uno che sapeva che un giorno/sarebbe andato a far la guerra /a uccidere tutti i nemici,/tornando pieno di medaglie”. Forse sarebbe stato lui a sparare per primo e uccidere Piero (“Dormi sepolto in un campo di grano/non è la rosa, non è il tulipano/che ti fan veglia dall’ombra dei fossi/ ma sono mille papaveri rossi”)

C’è in Abele Longo – come in tutti i poeti salentini – l’influenza di  Vittorio Bodini, con i tramonti da bestie macellate e la sua amata-odiata Lecce dagli angeli di cartapesta e il barocco che soffoca, ma che è anche un “travaso dell’intelligenza nella materia, un tentativo di soffiare lo spirito nella cavità del creato, un’attitudine a manipolare, impastare, un revival del mito partoriale e domestico.. Ma c’è in lui anche il mito dell’infinito leopardiano che riscopriamo nei  Muri a secco, recinti dell’anima salentina “solchi chiusi/alle falesie/dove il mare/fa da ponte/all’universo”

Come tanti altri figli del Sud, Abele non può che partire, e se ne va  a vivere in Inghilterra , e lo fa con la pertinacia  di chi appartiene al  popolo di formiche descritto da Tommaso Fiore,  attraverso  studio impegno serietà e un minuzioso esercizio di affinamento della parola, in un continuo sforzo di essenzialità,  un ponte di collegamento, materiale di riporto tra passato e futuro, tra l’io individuale e la molteplicità dei soggetti umani.  Ecco che  gli incontri, o ri-incontri dei personaggi del mito – scrive Anna Maria Curci – “sono reversibili, tornano a noi, da mondi estremi   con una forza nuova e inattesa.  Tornano a noi da originali combinazioni di limerick e filastrocche , dalle fiabe rivisitate  dal cinema. E ci spiazzano, ci scuotono dal torpore, dall’immobilità,  talvolta  ci confortano, con la loro affettuosa giocosità, come  Nino e Federico (Rota e Fellini) e la loro intesa magica, alchemica, “quella che unisce il cielo al mare/le dita allo strumento, le foglie al vento”, E poi  Neruda che nella sua casa al mare, sulla sabbia dell’Oceano, aveva come  sorta di Harem malinconico, quelle “Polene” che guidano le navi verso i sogni.

I versi  di Abele, liberi di forma e di strutture, difficili a declamarsi, hanno talvolta una concatenazione che non si rivela in superficie, convergono verso un punto che le stratificazioni possono nascondere a qualunque scandaglio. Anche gli oggetti  più insignificanti, una matita, un rotolo di spago, un tozzo di pane  hanno il loro cuore introvabile  e i   “vermi che si torcono//, l’afa il tanfo della discarica/zanzare rigagnoli di scoli/ un farsi ora che abbrevia/il supplizio della notte,  i segni con la matita bblu, o di gesso,le donne anziane col vestito della morte, il mistero della morte stessa agli occhi di una bambina, servono a Longo per  entrare, come una medium, nei  crepuscoli  dell’inconscio  che rimescolano il senso delle cose, nella “Semiotica degli  affetti” (“ Anche l’anima si può riparare/ Ci riuscì  con un filo di ferro/tra un tempo e l’altro di un concerto”)

La storia  è un recital  senza il  finale

Vivere nel mondo reale significa recitare senza conoscere il finale. E tuttavia l’uomo  dovrà seguire il proprio destino, i propri “Cavolfiori del male “ (Quando Eva inventò la margherita/per non ingiallirsi le dita/ nel m’ama non m’ama,/ Adamo s’inteneriva /ancora coi cavolfiori/ che coglieva per lei /anima irrequieta, /esaltandone le forme /in un consommè).

Il giocoso pessimismo cosmico di Abele, se così vogliamo chiamarlo, ha un suo contrappunto felice in attimi di innocenza, quando la vita non ha ancora presa certa. L’angoscia si stempera nella possibile reversibilità, nella taciuta speranza che qualcuno, ancora innocente, ne sia esentato”.  Fine maggio (Un venticello caldo,/seduto sulla sabbia/qualcuno che fa il bagno,/mia figlia che rincorre/guardandosi le orme/lo spazio sconfinato/ Lo scrivo su un foglietto//sarà per sempre un caldo/giorno di fine maggio

Con tutta la tua  ironica grottesca ambiguità e leggerezza di tocco,  Abele sa non può  evitare la caduta. Sa che l’incontro-scontro con dio è sempre “truccato”.   Il duello  tra bene e male nella loro indistinzione è senza vinto e senza vincitore, il gong non suonerà mai  la fine delle riprese.Quello che conta veramente è solo il fervore del combattimento, l’eterna attenzione  dell’uomo che attesta la sua presenza, anche se l’insuccesso è scontato. Del resto il poeta sta sempre in attesa  dell’altrove sconfinato, il senso del tutto,  e assiste alla caotica e irrisolta coscienza di sé.  Il mistero dell’origine perpetua  non può essere penetrato dalla parola ; ma anche  “Se dio esistesse” non puoi fargli  una telefonata con una richiesta di  rinunzia a voler procreare altri sigilli di morte con pelli tenere di milioni di  innocenti neonati.  

 Abele è  un po’ come Hopper, – che  ci mostra un’America  non letteraria  e senza mitologia,(“Le donne di Hopper sono sempre una/e il vento con le tende sfiora,/ sembianze palpabili di un’essenza/ che profuma di luce la stanza vuota”); dipinge fotografa filma scenari fatti di oggetti comuni e luoghi familiari (il geco, la sposa  sola,  l’angelo del gel,  il bambino che non fa domande,  a stradina di campagna,  la cognata poliziotta, la casa, la vasca, la donna morta,  il ciabattino con i chiodi tra le gengive.Entrare nelle sue  poesie – scrive Cristina Bove – è  quasi sempre “fare un viaggio/ dentro una foresta di orologi”, un viaggio  animistico tra  spiriti fantasmi miti simboli enigmi labirinti.

Il poeta è meno che uno zero

 Possiamo dire, per concludere, che la sua poetica  non coltiva alcun fiore del male, né inaugura nuove stagioni  all’inferno, e tuttavia  raggiunge livelli espressivi lucidi e pienamente adeguati alla densità e intensità del pensiero. Insomma, Abele fa bene la sua parte in  quella tragedia fatale, annunciata, che è la vita, con l’Infinito dentro riflesso negli occhi da zombi di Carmelo Bene e nella sua voce tamburo-flauto grottescamente leopardiana: “Odi stormire il lamento di quello/infinito che ridonda la voce,/del comico che sfida il padreterno,/macchina di sfinimento del presente/di un idillio che s’incanta e calpesta/le viscere reliquie del tuo io/di quanto a Otranto vomitavi al mare”

Mi ricordo Abele, al nostro primo incontro, a casa di Annamaria Ferramosca. Cadeva il crepuscolo, una luce  da vigilie insonni, una luce grigia, oserei dire da quadri hopperiani, una luce  da fumo di Londra. Mi disse, Il poeta ti può solo dire che la sua  pena è durare oltre quest’attimo, e quest’attimo è l’eternità, anelata, amata  da tanti poeti, ma l’eternità –avverte  Borges – è solo uno splendido artificio che ci libera, seppur fugacemente, dall’intollerabile oppressione dell’attimo successivo…

Tra poco, pochissimo, tutto questo finirà e allora il poeta tornerà  meno che zero, solo, isolato e offeso in quell’oscura forza che lo sorregge. Comunque continuerà ad avanzare  sotto l’urgenza della consapevolezza fino al rimorso, continuerà  a porre domande,  ignaro di soluzioni, ma sapendo che si devono trovare.  E al richiamo imperioso  della sera che cade, con l’eclisse di un grido, risponderà , verticale, ritto alla luce, col colore della sua nudità.

Roma, 20 giugno 2013   Augusto Benemeglio

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