Come un mantra sacro: Reversibilità di Abele Longo
La copertina della raccolta di poesie di Abele Longo (Reversibilità, Calimera, Edizioni Accademia di Terra d’Otranto, 2012, pp. 98) fornisce
immediatamente un preciso percorso di lettura, grazie a due suoi elementi importanti, il titolo e l’immagine. Se il titolo va considerato come enunciato
programmatico del testo, secondo le ormai note indicazioni todoroviane, il disegno riprodotto, sia nella sua forma che nel suo contenuto, ci consegna la
chiave interpretativa dei versi a venire. La “reversibilità” allude a un rovescio, a un capovolgimento, mentre l’insetto dal sorriso sarcastico e dalle
fattezze quasi umane che campeggia al centro della copertina bianca della plaquette, nella sua originalità naïve, rimanda alla leggera ironia
sfumata d’amaro che pervade i versi. Vero e proprio accorgimento stilistico, è appunto questa risorsa retorica a condurre al ribaltamento semantico della
rappresentazione e delle connotazioni attese. Infatti non va trascurato che, come insegna Jauss, ogni testo configura e prevede un orizzonte di attesa,
un’attesa che questa scrittura sembra compiacersi di eludere fino ad andare a costituire un vero e proprio “testo di godimento”, secondo la celebre
definizione barthesiana. Il lettore viene strattonato dalla sorpresa e le sue aspettative circa la significazione vengono fatalmente eluse dalla scrittura,
che depista chi legge per immetterlo in un percorso singolare, in una rappresentazione non banale, insolita.
Ad esempio il tema della morte, topos letterario per eccellenza, viene trattato e risolto da una sorta di danza linguistica, che mi piace
definire, anche in riferimento alle radici salentine di Abele Longo, la “pizzica” dello sconcerto, grazie alla quale la scrittura sembra farsi beffe della
tradizione, pare quasi dileggiare il lettore, traducendo la smisurata desolazione di Thanatos mediante soluzioni governate appunto dall’ironia, dallo
slittamento semantico, dal paradosso. L’aspetto ludico e terapeutico insieme di questa danza antica pare ben conformarsi al rito che va compiendosi, a
quella sorta di esorcismo liberatorio cui tende quasi naturalmente la scrittura di Reversibilità:
Sarà il padreterno a cercarci
tra nuvole di mosche
là dove l’anima si addensa
sprofonda nel limo del mare.
(Trent’anni marinaio, p. 47)
Il lettore è chiamato a una sfida, deve deporre l’accreditato sapere codificato dal Parnaso letterario e predisporsi a una sorta di innocenza primordiale
per poter seguire quest’avventura poetica, che mira, come ogni testo di godimento, a far vacillare certezze spesso stantie per suggerire tragitti
alternativi, valenze sorprendenti e fertili orizzonti interpretativi. Così ogni canone estetico relativo alla descrizione della bellezza femminile viene
canzonato in nome di un divertissement non fine a se stesso, ma mezzo per materiare quella “reversibilità” promessa dal titolo:
Il botanico felice vedeva
la sposa come una bella bulbosa
e ne declamava le qualità:
discreta versatile raffinata
di grande generosità si adatta
all’ambiente con sole poche cure.
(Bella, p. 36)
Sfogliando il grande Libro della Letteratura, non possono non tornarci alla memoria Francesco Berni e le sue Rime di stretta osservanza
antipetrarchesca. Si tratta soltanto di un accostamento spontaneo e superficiale perché, a ben riflettere, la dissacrazione bernesca risulta
premeditatamente indirizzata a un modello specifico, cioè al levigato poetare petrarchesco, laddove Bella si scrive solo come uno dei diversi
accorgimenti stilistici per rovesciare determinati canoni e riferimenti letterari, provocando disorientamento nel lettore.
A differenza delle Rime bernesche, i versi di Reversibilità non paiono volti programmaticamente alla dissacrazione di determinati
‘santuari’ inviolabili, bensì sembrano piuttosto avere nel loro sangue una spontanea vocazione al capovolgimento. Una inclinazione che non si risolve in un
puro giuoco linguistico, in quanto veicola funzionalmente significazioni e forme che costituiscono l’ossatura della plaquette. Il lettore viene scosso,
costruttivamente frustrato nelle sue attese, da rappresentazioni che squarciano orizzonti ‘altri’, tali da spingerlo a rivedere acquisizioni polverose e a
ri-leggerle con lenti nuove in uno scenario inconsueto materiato da un lessico spesso imprevisto. Ninna nanna in fondo al mare (p. 73) è un testo
esemplare di questo fenomeno: se i suoi versi, a livello semantico, si snodano certamente poco ossequiosi nei confronti della ninnananna classica tesa a
profilare un improbabile mondo di buoni sentimenti e dolci parole rassicuranti, sul registro formale omaggiano il modello infantile nella riproposta del
motivo cantilenante, quel moto ondoso del suono idoneo a cullare i bambini, provocando in tale contrasto tra forma e contenuto un più intenso ma efficace
stridio, una collisione funzionale agli intenti, alla poetica del testo.
Sia la tradizione aulica che quella più popolare risultano quindi rivisitate nel nome della reversibilità e in certi casi ciò accade proprio con l’ausilio
intertestuale della citazione esplicita o implicita, quindi con il ricorso alla dialogicità, cioè a una delle caratteristiche fondamentali della
letteratura, dal cui ventre Abele Longo estrapola angeli e serpi, modelli e strategie stilistiche per mettere gli stessi in discussione. In tale percorso
si colloca I cavolfiori del male (p. 35), titolo che dileggia fin troppo scopertamente i celeberrimi Fleurs du mal di Charles Baudelaire.
La più alta tradizione letteraria permea dunque questi versi, pur irridenti e spesso solo apparentemente dissacranti: alla voce polifonica di Carmelo Bene,
che sembra echeggiare ne L’infinito dentro (p. 91), appropriatamente dedicato al grande attore, è consegnato l’omaggio all’Infinito
leopardiano; dislocati dal noto muretto dell’hortus conclusus montaliano e trasposti in alto, dalle nuvole piovono “cocci aguzzi di bottiglia” ne Il mago affamato (p. 72); infine, in maniera del tutto inattesa, torna a risuonare il notturno canto orfico di Dino Campana nella abbastanza
ossequiosa riscrittura evocativa di
Battono ne la notte (il poeta de le botte)
(p. 60).
Questi richiami, più o meno espliciti, si insinuano nella raccolta come a scrivere, a confermare, a ribadire intertestualmente il valore dell’oggetto
letterario e a disegnare la faccia principale di quella medaglia, che viene rovesciata dalla scrittura per suggerire pudicamente la sua strada ‘altra’.
Tuttavia tutto ciò non fa che avvalorare e celebrare in una sorta di mantra sacro l’importanza delle radici, non solo culturali o letterarie, ma anche
geografiche, grazie alle suggestioni memoriali provenienti dalla meravigliosa terra salentina, che ha dato i natali ad Abele Longo. Quando la scrittura si
accosta troppo pericolosamente a certi ricordi inverte il percorso faceto e si colora di una pudica nostalgia che, lungi dall’essere tentata
dall’irriverenza, si affida all’economia linguistica e, con scarni e rapidi tratti, ci consegna intense schegge liriche, come nel caso di Muri a secco (p. 41):
Si condensa
nei confini netti
di una terra
arida di zolle
la notte,
coi solchi chiusi
alle falesie,
dove il mare
fa da ponte
all’universo.
Un solo termine, “falesie”, rigorosamente selezionato all’interno del glossario privato e familiare salentino, riesce a profilare le brulle coste con
pareti rocciose a picco sul mare tipiche di quel tratto di mare pugliese. Echi letterari, contaminazioni, citazioni esplicite o
implicite, richiami velati di nostalgia percorsi da un sorriso amaro e tuttavia benevolo materiano dunque questa raccolta. E l’assunto del titolo non manca
di trovare anche una più nascosta coniugazione, che struttura alcuni testi in maniera che si possano leggere anche a partire dal verso conclusivo per
risalire fino all’incipit, come nel caso di Tristizia (p. 22), di Sensale (p. 23) e di Domande (p. 43): si tratta
tuttavia di una reversibilità di tipo formale, che non incide sulla significazione testuale.
Cifra e risposta a interrogativi letterari, sociali, esistenziali e affettivi, Reversibilità si compatta dunque in una serie di tessere tenute
insieme da un interessante ordito linguistico dove nulla è lasciato al caso, ma risulta frutto di una riflessione ponderata sulla lingua e
sull’architettura formale e semantica dei testi. Così quel sistema di valori, letterari e non, trova nel ribaltamento una strada e una maniera per
riaffermarsi più prepotentemente e per consegnarsi al lettore quasi rigenerati da questa sorta di mantra evocativo che si snoda all’insegna della
reversibilità. (teresa ferri)