The Holocaust as Junction
(traduzione dell’intervento tenuto dal prof. Yehoshua)
Pur caricandoci di un grande peso, l’Olocausto ci pone di fronte a delle sfide chiare. Come figli delle vittime, ci incombe l’obbligo di enunciare al mondo alcuni insegna¬menti fondamentali.
Il primo è la profonda repulsione per il razzismo e per il nazionalismo. Abbiamo visto sulle nostri carni il prezzo del razzismo e del nazionalismo estremisti, e perciò dobbiamo respingere queste manifestazioni non solo per quanto riguarda il passato e noi stessi, ma per ogni luogo e ogni popolo. Dobbiamo portare la bandiera dell’opposizione al razzismo in tutte le sue forme e manifestazioni. Il nazismo non è una manifestazione solamente tedesca ma più generalmente umana, di fronte a cui nessun popolo, e insisto, nessun popolo è immune.
Dopo la seconda guerra mondiale si è posta la domanda su come sia stato possibile che un popolo colto e evoluto come quello tedesco, che aveva prodotto grandi personalità nei campi dello spirito e delle arti, sia sceso a un tale orrendo livello di comportamento. Diversi storici e germanisti di qualità hanno tentato a loro tempo di sostenere l’idea che il nazismo è stato in fondo sempre presente in modo potenziale nel popolo tedesco, e che un tale atteggiamento ha le sue radici nello spirito e nella mentalità tedesche. Questa teoria ha cercato di dimostrare che il popolo tedesco nella sua essenza ha un potenziale di violenza, e che quella particolare associazione tedesca di forte nazionalismo e di senso dell’ordine e della disciplina cieca ha potuto, essa sola, dar origine al nazismo. In base a questa teoria i tedeschi non avrebbero nessuna possibilità di essere diversi, e di conseguenza sarebbero destinati per sempre alla colpevolezza; sarebbe quindi opportuno tener gli occhi bene aperti e mantenerli sempre in una condizione di debolezza per evitare nuove esplosioni. Inoltre, se ci si basa su queste considerazioni, non ci sarebbe nessuna possibilità di accusarli dal punto di vista morale, poiché la cosa sarebbe insita in loro dalla nascita.
Mi pare che gli anni che sono passati dalla seconda guerra mondiale abbiano dimostrato l’infondatezza di teorie del genere. La Germania di oggi (mi riferisco alla Germania democratica dell’ovest) è in effetti un paese diverso. È uno Stato in cui sono presenti la libertà, la democrazia e uno scrupoloso rispetto dei diritti civili. E questa è una prova decisiva che il nazismo non è una necessità per i tedeschi, ma una visione del mondo e un comportamento che essi hanno scelto, e di cui perciò sono anche moralmente responsabili. Non dimentichiamo che Hitler fu eletto in libere elezioni generali dalla grande maggioranza del popolo tedesco, che ha collaborato con lui per tutto il suo percorso. Il fatto che la Germania possa essere diversa dimostra che il nazismo non è stato loro imposto, ma è stato il frutto di una libera scelta. Da qui la responsabilità storica e morale dei tedeschi per ciò che è accaduto.
Ma gli anni che sono passati da allora ci provano purtroppo che manifestazioni naziste sono possibili anche tra altri popoli. Gli orrori presenti non hanno toccato i vertici della seconda guerra mondiale, ma gli avvenimenti del Biafra, del Bangladesh o della Cambogia non sono poi così lontani dalla violenza del massacro nazista.
Noi, in quanto vittime del microbo nazista, dobbiamo essere portatori degli anticorpi di questa malattia tremenda, da cui ogni popolo può essere affetto. E in quanto portatori di anticorpi dobbiamo anzitutto curare il rapporto con noi stessi.
Dobbiamo inoltre fare attenzione a non perdere il senso della misura, e a non misurare tutto in rapporto all’Olocausto. Poiché dietro di noi c’è una sofferenza così terribile, potremmo essere indifferenti a ogni sofferenza meno violenta della nostra. Chi ha molto sofferto può non rendersi conto del dolore degli altri, e questo è un comportamento del tutto naturale. Come alfieri deh”antinazismo dobbiamo acuire la nostra sensibilità, e non diminuirla. Perché dobbiamo ricordarci che il fatto di essere stati vittime non è sufficiente per conferirci uno status morale. La vittima non diventa morale in quanto vittima. L’Olocausto, al di là delle azioni turpi nei nostri confronti, non ci ha dato un diploma di eterna rettitudine. Ha reso immorali gli assassi¬ni, ma non ha reso morali le vittime. Per essere morale bisogna compiere degli atti morali; e per questo affrontiamo degli esami quotidiani.
Ho già detto che l’Olocausto può condurre l’uomo a un atteggiamento di disperazione nei confronti del mondo. È del tutto naturale non avere fiducia nell’uomo e nei suoi atti dopo un’esperienza del genere. Noi, figli delle vittime, possiamo esprimere la nostra delusione con un vigore raddoppiato. Ma dobbiamo ricordare che la sfiducia nel mondo è proprio un atteggiamento tipico del nazismo. Il nazismo è nato anch’esso dalla sensazione che il mondo è nella sua essenza privo di valori, che non si può sperare nulla di buono dall’uomo, e che gli unici valori che hanno un peso sono la forza e l’astuzia. Chi, in seguito all’esperienza dell’Olocausto, arriva a una conclusione nichilista, dà paradossalmente ragione alle tesi naziste. Non è cosa facile nutrire speranza e fiducia nell’uomo dopo l’Olocausto, ma se vogliamo essere coerenti nel nostro antinazismo dobbiamo fare mostra questa sfida.
Quando esaminiamo quello che è avvenuto e ci domandiamo meravigliati come sia potuto avvenire, siamo costretti a riconoscere quanto scarsa e povera fosse la nostra conoscenza delle atrocità durante la guerra. Ci chiediamo spesso come sia stato possibile che una parte consistente del popolo (compresa la colonia ebraica in terra di Israele) fosse all’oscuro di quanto avveniva nell’Europa occupata. E se avessimo saputo quello che avveniva laggiù, forse avremmo potuto essere più utili. Il problema della chiusura dei canali di comunicazione non è solo un problema oggettivo di una situazione imposta da un ferreo regime totalitario, preoccupato di nascondere le proprie atrocità agli occhi del mondo: la chiusura di questi canali ha anche origine da un rifiuto interno di sapere quello che avviene, il rifiuto di scavare dietro ogni briciola di notizia che potrebbe fornire un quadro più chiaro degli avvenimenti. L’importanza della comunicazione umana, l’apertura dei canali di comunicazione, lo sviluppo della stampa e di altri mezzi di comunicazione, sono uno degli insegnamenti chiari di quel periodo. E mi pare che il mondo dopo l’Olocausto, il mondo occidentale, lo abbia capito bene, e cerchi per quanto è possibile di assicurare una situazione in cui l’occultamento e la soppres¬sione delle notizie non siano più possibili. La lotta per la libera comunicazione è una delle lotte più importanti per evitare che si ripetano abomini del genere. Lo abbiamo visto nella nostra lotte per il destino degli ebrei dell’URSS, lo vediamo in altre lotte simili nel mondo. Di nuovo, come portatori del messaggio antinazista e antitotalitario, dobbiamo essere i primi a batterci per la libera circolazione delle notizie e delle idee. Chiunque voglia chiudere la bocca a un’altra persona, anche con pretesti di sicurezza o di solidarietà, finisce per seminare una disgrazia futura. È quindi preferibile una società aperta con un fluire disordi¬nato di conoscenze che una in cui regnino le smentite, gli occultamenti e le cancellazioni.
E per finire, l’esperienza dell’Olocausto in quanto espe¬rienza prettamente ebraica ha un significato perenne per tutta l’umanità. Anche tra molti anni si continuerà a studiare quel periodo, perché gli eventi di quella guerra tremenda hanno esteso il concetto di uomo, il ventaglio delle sue possibilità. Quella guerra ci ha insegnato cose che non conoscevamo sulla natura dell’uomo. Il concetto di uomo non è più lo stesso di prima, nel bene e nel male. Riusciamo a capire meglio l’uomo, dopo l’Olocausto. È vero, abbiamo sempre saputo che l’uomo è capace di compiere il male più efferato e il bene più straordinario; ma nonostante questo l’Olocausto ci ha svelato un nuovo abisso di male a cui l’uomo può giungere, ma anche la forza della sua resistenza. Degli scheletri ambulanti nei campi di concentramento, che da un punto di vista biologico dovevano quasi considerarsi come morti, davano ancora delle prove di moralità, dividendo con gli altri l’ultimo pezzo di pane che restava. Dalla disperazione più tremenda può perciò nascere anche la speranza. Noi che siamo stati lì, e che ne siamo usciti, possiamo e secondo me dobbiamo alzare il vessillo della fede nell’uomo.