Però non vogliamo essere troppo duri. Le poltroncine nuove sono molto comode, spazio per le gambe ce n’è in abbondanza anche per chi come me supera di poco i 190 centimetri. Poi c’è il porta bibite che è molto utile, soprattutto in un cinema che offre ogni ben di dio (va be’, Eden…) nelle sue macchinette a monetine, roba che nemmeno più al circolo parrocchiale (che è poi la stessa cosa in questo caso…). No, ma il cinema va bene, ok? E’ davvero comodo, poi non vi voglio parlare delle maschere strappaglietti perché perderemmo giorni. Ma sono brava gente, educata e simpatica e da qualche anno hanno perso anche il vizio di accendere le luci e aprire le porte cinque minuti prima della fine del film. Insomma, anche l’Eden sta entrando nel nuovo millennio, speriamo che entro i prossimi dieci anni risolvano quel problema audio che ogni volta mi spinge a gridare di alzare il volume “che non sento un cazzo” sperando che la maschera strappabigletti abbia un telecomando e possa “dar su”.
Poi ci sono i bagni del cinema, ma io non ci sono mai entrato. Se vi capitasse di andarci sappiate che dovete abbandonare la sala e tornare all’ingresso. Ve lo dico perché non vorrei vi perdeste all’interno della sala alla ricerca della scritta “toilette” o “wc”. Già si vedono poco le uscite di sicurezza, con quella lampadina verde che è ormai completamente oscurata per cui in caso di incendio mi sa che dovete comunque tornare all’ingresso. Fatelo certamente se avete però bisogno del bagno. Uscite dalla sala e di fianco allo strappabiglietti (che tanto sta sempre fermo lì) c’è il bagno. Attenzione, non quello coi vetri, quella è la biglietteria. Dall’altra parte. Nei bagni, che penso siano unisex un po’ come alcuni parrucchieri, è consentito anche ricaricare gratuitamente la propria pellicola odorama.
Bene, poi c’è il film, perché in realtà di questo dovremmo parlare. Acab, all cops are bastards, tutti gli sbirri sono bastardi. Acronimo divenuto sempre più famoso negli ultimi anni anche in Italia e che ha generato probabilmente decine di canzoni omonime (a me in realtà vengono in mente solo la canzone dei 4 Skins e quella dei 98 Mute) il film di Stefano Sollima si ispira al libro mai letto (da me) di Carlo Bonini e pubblicato da Einaudi e tenta di raccontare un punto di vista diverso sugli scontri di piazza e allo stadio tra il reparto celere della polizia e quelli che stanno dall’altra parte, chiunque essi siano. Operai che scioperano, ultras, manifestanti. Fin qua l’idea è ottima. Tralasciamo le preventive proteste di alcuni centri sociali alla presentazione del film, proteste che volevano informarci di come non sia giusto rendere cinematografico, quindi sdrammatizzare, l’idea del celerino in quanto picchiatore dello stato. Opinioni. Anzi, dal film i celerini non ne escono poi così bene a volerla dire tutta. Il problema è il modo in cui Sollima (e forse anche Bonini) rende l’inclinazione violenta ispirata a una sorta di giustizia sommaria di questi servitori dello stato.
Tentando di romanzare l’opera per dare un senso alla pellicola e farne uscire una storia e non un docu-film, l’impressione è che si spinga un po’ troppo sull’acceleratore emozionale per creare personaggi credibili che alla fine si ritrovano un po’ coinvolti nel paradosso più che nella realtà di spedizioni punitive fatte a tempo perso che, per carità, capiteranno pure ma non ci danno il punto di vista del celerino all’interno della società, ma quello di un agente di polizia che vittima come ogni cittadino del vincolo delle leggi cerca in modo più rapido e organizzato la maniera di fare un po’ di giustizia spicciola qua e là senza davvero risolvere il problema di fondo. E’ un modo per trovare quel pezzo di umanità cui tutti vorrebbero attingere, vendicarsi di un sopruso o di un fastidio, pensare di risolvere un problema endemico con un paio di calci in culo in piena libertà. Però Sollima ci presenta un affresco di tragedie familiari e difficili borgate di periferia senza futuro mischiando il bene e il male in un’unica forma che come in un film di guerra dipinge il fatto di cronaca senza giudicarlo e mostrando gli esseri umani come pedine di un disegno troppo grande e tutte vittime della solitudine e dell’idea di rivoluzionare il mondo vincendo una battaglia alla volta. Ed infatti, in quel finale di tensione nel buio di fronte allo Stadio Olimpico, sembra di assistere per un attimo a un film sul Vietnam dove non ti senti più di dire se la guerra è giusta o sbagliata a prescindere, ma provi ad entrare in empatia col protagonista, chiunque sia, e vivere quel momento di tensione che attraversa l’aria prima di ogni battaglia, voluta non si sa da chi ma combattuta da molti a volte anche per il solo gusto di esserci.
Diciamo che in attesa di Diaz, film pluri-acclamato a Berlino che tratta i fatti di Genova 2001 e che ci darà un altro punto di vista sui reparti anti-sommossa, ci si aspettava da questo Acab un film sul celerino e su quello che gli succede alle spalle e non il contrario. Una storia che non dipingesse chi nel lavoro sembra scaricare le frustrazioni domestiche e le beghe quotidiane che chiunque può beccarsi in pieno stomaco, ma la visione di quello che è l’ordine pubblico nel momento in cui scoppia uno scontro e solo dopo, in secondo piano, lasciare lo spazio di quella normalità quotidiana che comunque può dare adito a certi gesti ma non li giustifica. La percezione che ho avuto è quella di un film fatto un po’ al contrario e troppo ricamato, anche se è un lavoro più che discreto, recitato benissimo da una buona parte di personaggi dal passato in celluloide fatto di Romanzo Criminale, ma pur sempre un film che poteva sfruttare meglio l’occasione di parlarci del mondo del reparto celere in maniera più diretta, senza toccare di striscio parti ideologiche confuse e fratellanza, comunque ben visibili nel film ma poco calcate, se non in un paio di attimi e di dialoghi, nella storia vera e propria, con personaggi che non sembrano sempre credere nei valori dichiarati ma di rispettarli quasi come un obbligo imposto ad una macchina e non a un essere umano. Perché non è vero quello che dice il politico di turno a un certo punto del film (“ci vuole solo un coglione per fare il celerino”), ma sicuramente c’è una molla, in questi soldati corazzati per la rissa, che scatta e non possibile comprenderla per chi fa il “poliziotto e basta” o per chi non lo fa proprio.
Film meritevole, al di là di tutto, anche per la colonna sonora ed un ritmo decisamente alto, con quel pizzico di amaro finale dove chi si comporta bene finisce per essere allontanato dal resto del branco, tacciato di infamia, come in ogni corporativismo capita e come se avesse senso che al proprio interno, qualunque organizzazione, persino la polizia di stato, potesse decidere di coprire i propri crimini in barba alla legge. Un po’ come quando la chiesa romana tenta di coprire la pedofilia al proprio interno. O di giustificare l’Ici per ogni immobile, come per l’Eden. E quando accendono le luci e in terz’ultima fila trovi una tizia che dorme beata con ancora addosso il cappotto sai che se vorrà potrà riguardarsi il film. In quel cinema funziona come tanti anni fa, niente biglietti numerati, niente obbligo di uscita, niente biglietto da ricomprare. Insomma, niente tornelli e niente celerini, anche se non è una rassegna d’autore da cinema di periferia. E’ Acab in Eden.