Da un po' mi sono iscritto ad Academia.edu. E, trattandosi di un social network specializzato, ho dovuto inserire tutti quei dati che, per mia abitudine, do sempre veri. Si giunge subito al punto, che suFacebook o Twitter non ha ragione di incrociare qualche pettine selettivo: a che titolo? o più brutalmente, perché? Da quando ho finito il dottorato, non ho una struttura che mi sostenga, non c'è nessuno che paghi per i miei studi, quindi non sono uno studioso. Ovvero, non uno riconosciuto. Perché gli studi richiedono finanziamenti e un uomo come me, tutto tranne che benestante, anche se certo non povero, non può permetterselo. Non ho fondi dedicati e quel che posso fare, al più, è riscattare tutto ciò che la dedizione e il lavoro dei miei genitori mi hanno evitato fin qui: lavorare per pagarmi degli studi
Fondamentalmente, è quello che ho fatto finora, dopo la laurea. E sfido chiunque voglia farmi i conti in tasca a trovare nella contabilità della mia scholarship voci che non avessero a che fare con lo studio. Però, certo, a una data età, fa tenerezza nonché pena: se a 36 anni e mezzo non ho speranza (e - che mi si creda o no - voglia) di addentrarmi nelle strutture accademiche, è indubbio che una struttura ti permette di essere riconosciuto e, una volta che ci sei dentro, scambi a volte anche proficui. Per tutti? No, categoricamente no. Una struttura avvantaggia sempre chi vi si compromette di più, chi arriva più in alto, facendo sì che si nutra di tutto il resto, in un osceno autocannibalismo. Se l'esimio professore di turno vuole, ha accesso a colleghi di ogni ordine e grado, laddove più alta è la carica, in specie in Italia, più elevato è il filtro contro potenziali intrusioni, contro novellini che infangano l'empireo.
Dunque, non solo non è detto che l'università possa creare una rete, ma anzi sembra fatta appositamente per controllarne i nodi. I vincoli reciproci tra professori, ricercatori e giù giù fino a chiunque stia dal lato della cattedra dove si è in meno, le catene tra queste persone, che sanno solo sparlarsi e sfruttarsi dando di sé uno spettacolo squallido, sono tali per cui l'università funge anche da altro tipo di rete: protettiva. Si sa che non si può andare oltre un certo livello, che la forma deve essere mantenuta e, soprattutto, non si sa mai in futuro. L'independent scholar (ovviamente parlo dell'independent scholar preparato e colto) - come si chiama chi non ha una struttura e spesso neanche i soldi - è un outsider pericolosissimo: non guarda nessuno in faccia, perché non ha voglia o bisogno di nessuno e, guarda un po', si occupa di cose, oggetti,topics, non di cattedre universitarie o di volgari allusioni ai congressi organizzati (o non organizzati) da altri o alla permanente della collega (o, naturalmente, del collega).
Ora, se c'è una cosa che in un normale dipartimento universitario non si fa, almeno nella mia esperienza dottorale, è parlare di argomenti relativi al corso di studi. Le battute sono sempre feroci, fatte di rivalse e presunte superiorità o appiattimenti su una palese inferiorità rispetto al proprio ruolo e a ciò che si insegna. Le recensioni sono guidate da ragioni che trascendono lo studio che si sta presentando, ma non in direzione dell'oggetto, non sia mai, bensì di alleanze. Il sorriso paterno che accompagna la condiscendenza o l'implicita e irremovibile superiorità di casta e personale di moltissimi docenti nei confronti di chi esprime una propria opinione è per lo meno rivoltante. Questi boriosi caproni (e chiedo scusa a un poeta che amo) fanno di tutto per farti sentire altro, diverso, estraneo, mantengono una camera stagna di protezione contro il veleno che permea i corridoi universitari. Ma chi si avvicina poco non ha nessun filtro, prende tutto di petto e rimane bruciato.
A meno di diventare come loro. Per fortuna, non voglio esserlo (e naturalmente l'università italiana e il mondo della ricerca non aspettavano proprio me). Tra l'altro, laurea esclusa, non ho mai avuto un contraddittorio in merito a contenuti e metodologie, non mi hanno mai discusso il merito di una sola pagina della tesi di dottorato: quello che non sapevo era una vergogna non saperlo già e quello che sapevo da prima è stato ascritto senza complimenti ai meriti di chi voleva prenderseli. Continuerò a scrivere che sono un independent scholar, un dilettante, uno che si paga gli studi lavorando. Ma che lo fa davvero. Se non posso essere pagato per studiare, so ben io per cosa val la pena spendere quel niente che guadagno. Almeno questo è mio e ne sono fiero
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