Michela Murgia vince il Premio Campiello 2010
Ho chiamato Michela venerdì mattina, al cellulare. Era appena atterrata a Venezia. Ed era emozionata. Le ho detto: “ho una sensazione positiva… vincerai il Campiello”. Lei mi ha ringraziato (magari avrà fatto gli scongiuri… chissà). Ma ciò che conta è che il Premio è andato a un libro assolutamente meritevole, di cui – peraltro - avevamo avuto modo di discutere l’estate scorsa proprio qui a Letteratitudine, con la partecipazione della stessa autrice.
Complimenti, Michela! Cento di questi Premi… e di questi libri.
Massimo Maugeri
5 settembre 2010
—-
Faccio i migliori auguri a Michela Murgia (nella foto) per aver vinto - sabato, 22 maggio - il Premio letterario SuperMondello 2010 e aver ricevuto contestualmente la comunicazione di far parte della cinquina dei finalisti del Premio Campiello di quest’anno (aggiudicandosi, dunque, il Premio Selezione Campiello). Il libro premiato si chiama “Accabadora” (Einaudi) e riconfermo le parole di elogio espresse nel post del 24 agosto 2009. Un libro bello e importante che, ancora una volta, consiglio di leggere.
Di seguito, il citato post pubblicato la scorsa estate.
Massimo Maugeri
24 maggio 2010
———-
Post del 24 agosto 2009
«Acabar», in spagnolo, significa finire. E in sardo «accabadora» è colei che finisce. Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di un’assassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi. È lei l’ultima madre.
Sono queste le parole che si leggono sulla quarta di copertina del romanzo di Michela Murgia intitolato, appunto, “Accabadora” (Einaudi); un romanzo che – per quanto mi riguarda – è uno dei migliori che ho letto nel primo semestre del 2009.
Una storia forte, quella della Murgia; impreziosita da una scrittura di alta qualità (lirica, densa, ma molto efficace; da grande narratrice) e dal fascino di un’ambientazione riuscita (quella della Sardegna degli anni Cinquanta). Una storia che affronta tematiche complesse e attualissime quali: l’adozione (o l’affidamento), l’accompagnamento alla morte (eutanasia?), ma anche le contraddizioni e i taciti patti che possono interessare comunità organizzate come un unico organismo.
La giovane protagonista del romanzo, Maria, all’età di sei anni diventa «figlia d’anima» (fill’e anima) dell’anziana Bonaria Urrai. Cosa significa «figlia d’anima»? Significa – nella fattispecie – che la piccola Maria diventa figlia acquisita dell’anziana donna secondo l’uso campidanese che consente alle famiglie numerose di compensare le sterilità altrui attraverso una adozione sulla parola; il patto tacito è che la figlia acquisirà lo status di erede, ma in cambio promette di prendersi cura della madre adottiva nei bisogni della vecchiaia.
Bonaria Urrai fa la sarta. Questo è quello che sa Maria. Ma c’è dell’altro. Nell’oscurità l’anziana donna svolge un ulteriore compito: entra nelle case per porre fine alle sofferenze degli agonizzanti e portare una morte pietosa. È un atto ossimorico, quello dell’ultima madre: ferale e amorevole.
Maria la scopre dopo, questa realtà. E la scoperta la sconvolge, la travolge. Perché la giudica inaccettabile. Perché discende dal crescente scarto tra l’etica millenaria di una società morente e i nuovi valori che l’incalzano. Anche se - alla fine - un monito della stessa Bonaria aleggia nell’aria, penetra nelle orecchie: “non dire mai:di quest’acqua io non ne bevo”.
Vi invito ad approfondire la conoscenza di questo romanzo interagendo con l’autrice (che parteciperà alla discussione).
Contestualmente vi propongo di discutere sulle tematiche affrontate dal libro.
Come sempre, per favorire la discussione, pongo alcune domande.
1. (Maria diventa «figlia d’anima» di Bonaria Urrai)
Fino a che punto l’amore di una madre acquisita può superare o eguagliare quello di una madre naturale?
Siamo più figli di chi ci genera o di chi ci alleva?
2. (Bonaria Urrai pratica la «accabadura»)
Esiste un limite oltre il quale è possibile - o addirittura “giusto”, “auspicabile” - porre fine alle sofferenze di un agonizzante? E chi, eventualmente, dovrebbe stabilire il limite?
Di seguito, potrete leggere la recensione di Bruno Quaranta pubblicata su Tuttolibri del 20 giugno 2009. Consiglio, inoltre, l’ascolto dell’intervista rilasciata alla trasmissione radio Fahrenheit.
Massimo Maugeri
———————-
Da La Stampa, Tuttolibri, del 20 giugno 2009
ACCABADORA di Michela Murgia (Einaudi, 2009)
recensione di Bruno Quaranta
Si può ragionare anche così intorno alla letteratura italiana dei nostri giorni. Le occorrerebbe uno sguardo presbite per raggiungere o, almeno, sfiorare la riva. Là dove guardare, vedere lontano, significa - alla lettera - andare a’ rebours, scavare nel tempo, calare il secchio nel pozzo. Quando sussisteva l’identità geografica e storica, rispetto all’odierno apolide errare. Non si tratta di essere ossessionati dalle tradizioni e dalla storia, come lamenta un musicista di Ishiguro. Ma l’ambizione di approdare a un mondo, sia pure in fieri, e di riconoscerlo, questo sì. Come il Renzo manzoniano, a cui «il lume del crepuscolo fece vedere il paese d’intorno». Il paese è Soreni, in Sardegna (immaginario il paese, reale la Sardegna degli Anni Cinquanta, ammantata di un atavismo su cui già incombevano o volteggiavano i tempi moderni: i jeans, la televisione, il tailleur pied-de-poule a insidiare le lunghe gonne e lo scialle sulle spalle. Il lume lo regge Michela Murgia (nella foto), trentasettenne, originaria di Cabras, al secondo passaggio einaudiano dopo aver modellato Undici percorsi nell’isola che non si vede, il primitivismo che sfarina i paesaggi di cartapesta, spezzetta le cartoline, cestina le megalomanie hollywoodiane. Voce tra le voci che l’isola ha nelle ultime stagioni allevato, Michela Murgia. Ma con un timbro nitido, al riparo del vento imitatorio. Stilisticamente, almeno (e per esempio), la sua officina è assai lontana dalla Barbagia di Salvatore Niffoi. La lingua che cuce Accabadora non è oracolare (o, se lo è, lo è carsicamente), né le si chiede lo spasimo del mimetismo, l’avvoltolamento smisurato nei suoni indigeni. L’Accabadora - una sarta, Bonaria Urrai - è la parca che nottetempo recide il filo della vita con un filo di fumo, mai, o quasi, dubitando «di non essere capace di distinguere tra la pietà e il delitto». Una figura mitica tra le diverse di Michela Murgia (come Chicchinu Bastiu, il vecchio cieco che «sentiva nell’aria l’odore dell’uva pronta a far mosto»), una «musa notturna» di Esiodo, un traghetto acheronteo verso il luogo dei «senza nome». Non c’è peccato nel suo agire, è al di là del bene e del male, semplicemente spalanca la via alla dignità che è il medicamentoso oblio di sé. Di metafora felice in grano sapienziale, verso «le implicanze oscene della verità» avanza Accabadora. Perché, infine, Maria, fillus de anima, figlia adottiva di Tzia Bonaria, vedova di un promesso sposo morto in guerra, capirà quale creatura fatale l’aveva accolta. Inseguendo quindi un’ulteriore vita come bambinaia a Torino, là, dove «nessuno si sarebbe preso la briga di disegnare strade così dritte, se non avesse avuto molta paura», meritando la confidenza di un terribile segreto che la restituirà alla Sardegna. D’altronde, si interrogherà, interrogherà: «Me ne sono andata mai?». Al capezzale di Bonaria Urria colpita da «un’ittus», Maria si scoprirà - diverrà - carnalmente «fillus» , aureolata dalla verità (dalla necessità) «che ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno». Leggi scritte e leggi non scritte (come il sofocleo dare sepoltura): un’altalena, una tenzone, una casistica millenaria, sino ad Accabadora. «Quel che deve avvenire - come sapeva (e rispondeva) lo scrittore e giurista Salvatore Satta, conterraneo di Michela Murgia -, avviene senza rimedio, senza che Dio ci possa fare nulla». Si vorrà forse credere che siano onnipotenti, onniscienti, i codici umani?
Tags: accabadora, einaudi, michela murgia
Scritto domenica, 5 settembre 2010 alle 1:55 am
nella categoria INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI.
Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0.
Puoi lasciare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.