L'evoluzione industriale che ha caratterizzato lo sviluppo occidentale ha lentamente dis-umanizzato la persona per metterla costantemente in relazione di inferiorità con la macchina, la cui efficienza e durata garantiva un "risultato" immediatamente convertibile in valore di scambio.
L'uomo, nel suo relazionarsi col mondo, ha iniziato pertanto a vivere il successo del suo lavoro come unico mezzo per raggiungere il proprio stato di benessere, stato quest'ultimo, non olistico ma limitato principalmente al sostentamento economico del lavoratore e della sua famiglia.
E' chiaro, quindi, che il concetto celato dietro al verbo "accontentarsi", all'interno del contesto ideologico-politico dell'occidente, viene ad assumere un accezione fortemente negativa e assimilabile all'azione di rinuncia, di mancato perfezionamento, di accettazione del fallimento.
Il lavoratore non può "accontentarsi" perchè ciò significherebbe che l'intero organismo di cui egli è parte dovrebbe farlo, rinunciando quindi al suo scopo "vitale": la massimizzazione del profitto. Ovviamente tale comportamento, palesemente a discapito della volontà di chi detiene il capitale e il potere, viene disincentivato facendo precipare nell'oblio anche la radice etimologica della parola "accontentarsi", ovvero "-contentare se stessi" e quindi associabile semanticamente ai concetti di "realizzazione personale", "individuazione", "ricerca di sè".
Al contrario dell'occidente, l'oriente "storico" ha sempre considerato l'azione del "-contentarsi" come la base iniziale ove l'uomo avrebbe potuto poggiare i piedi per iniziare il suo percorso di perfezionamento e individuazione; una condizione, quest'ultima, che ha come la ri-costituzione della complessità della persona al fine di raggiungere uno stato di completezza esistenziale.
Ma, se l'oriente molto meno industrializzato ne era consapevole, l'occidente delle fabbriche vedeva l'unità della persona come un vero pericolo: il lavoratore doveva (e deve) essere in palese condizione di dipendenza rispetto a chi gli "elargisce la vita" e la sua realizzazione, se mai ne esista una, potrà e dovrà essere conseguita solo attraverso un processo di dono totale del sè all'azienda.
Nella competizione, "accontentarsi" equivale a cedere per primi e quindi a perdere, ma dove l'unico avversario è una propria costituzione psichica alienata da un mondo ove le altre "persone" sono soltanto macchine, compagni di "sventura" o detentori del potere di soggiogare, questo perdere è l'unica arma auto-referenziale che ha il lavoratore per non divenire oggetto a servizio dell'efficienza produttiva. La lezione orientale dovrebbe quindi insegnare che l'accontentarsi non è da intendersi come rinuncia (perfino estrema talvolta) ma l'accettazione del proprio essere-nel-mondo e l'inizio di un percorso di consapevolezza non intercambiale con nessun altro tipo di surrogato.
La spasmodica e irrazionale ricerca della "felicità" che sta caratterizzando ormai l'occidente è palesemente l'estremo tentativo del mondo industriale minacciato da questo risveglio, di rendere anche l'ipotetica "felicità" un oggetto commerciabile, che può essere facilmente barattato con la propria forza lavoro e una sempre maggiore rinuncia alla propria persona. Rinuncia, questa, che ovviamente vanifica ogni sforzo per il conseguimento della "felicità".