Il percorso della Verasani è sentimentale, lasciato all’uzzolo irregolare delle sue preferenze e modelli di riferimento: così le danze si aprono con la maledetta Janis Joplin che grida a se stessa e al suo pubblico; si prosegue con Chet Baker che parla a una giornalista incontrata a un party – e sembra di sentire la sua tromba e la sua voce velata, in bianco e nero, che sussurra: «Almost blue / almost doing things we used to do». Kurt Kobain si rivolge al suo dottore, e l’autrice si diverte a farlo un po’ suo, romanzando quel mal di pancia che lo attanagliava, come un refrain ossessivo. Edith Piaf dialoga col suo amore Marcel, perduto con grande dolore in un incidente aereo. E via via si odono le voci di Luigi Tenco, di Umberto Bindi, bistrattato dal mondo canzonettaro e provinciale di un’Italietta che mal digeriva l’omosessualità dichiarata. Accordi minori come una piccola Antologia di Spoon River: il compianto Jeff Buckley e la sua voce angelicata, travolta dai flutti del Mississipi. Non mancano le stoccate allo show-biz, tritacarne rozzo e insensibile di talenti immolati per il bene del “prodotto”. Lo sottolinea Amy Winehouse, nel suo dialogo col padre: «Daddy… Alla fine, la musica non era più importante. Sulla mia voce si puntava come alla roulette, ma non ero più io il giocatore, io ero solo il numero fortunato, e ho smesso presto di divertirmi. Già, potevo continuare a farli vincere oppure scomparire, non avrebbe fatto differenza. È così che funziona, no? I discografici sono come Dio, pretendono tutta la tua devozione. Loro investono, e tu ti fai investire. Non è un loro problema, non è mai un loro problema. Al limite, ti consigliano una clinica di lusso e dicono ai giornalisti: ‘Giudicatela solo per la sua musica’».
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Tuttavia, l’impressione che ho avuto nella lettura è che Grazia Verasani si sia accostata ai suoi “mostri sacri” con grande timore reverenziale. Ne ha approfondito le tormentate vicende, li ha coccolati e vi si è immedesimata, ma l’effetto finale, in molte pagine, è quello di trovarsi accanto le proteiformi figure degli spettri di famiglia, degli dei Lari. Ogni voce ha una parola finemente cesellata; gli echi degli episodi più singolari, degli eventi più drammatici, gli aneddoti, la biografia degli artisti riecheggiano nella memoria; qua e là baluginano foto o immagini di repertorio che fanno parte di tanto immaginario collettivo. Improvvisamente, nella penombra, risuona una melodia, un canto. Sono sempre loro, ma lo schema è sempre il medesimo: statico e prefissato. Come in una kermesse canora: «È il momento di … che ci canterà…». Così la voce di Dalida si sovrappone a quella di Ian Curtis; quella di Nico al soliloquio della Piaf; l’invettiva di Piero Ciampi al vigore di Freddie Mercury e tutto finisce per appiattirsi, a tratti, in un informe orizzonte grigio-nero che anticipa la burrasca. In altre parole, intendo dire che avrei preferito più Verasani e meno “accordi in minore”. L’autrice avrebbe potuto osare di più, magari rendendo partecipe il lettore dei suoi innamoramenti per i modelli di musico coi quali si confronta. Più compiuto, a mio avviso, il gradevole e intenso racconto in appendice, sorta di contraltare al coro di voci che popolano Accordi minori e che vede protagoniste cinque donne che amano la musica, ognuna un diverso genere musicale. Queste donne costituiscono i differenti volti di un prisma che modella, ancora in via di definizione, l’immagine intrigante di Grazia Verasani, scrittrice e musicista dalle molteplici influenze che attendiamo con piacere e curiosità al varco della sua prossima produzione e per la quale è sempre operante il viatico dell’eterno Freddie: «The show must go on».
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