Achille Starace: una vita discussa

Creato il 02 febbraio 2011 da Cultura Salentina
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Achille Starace

5. Mussolini è morto!

Invece nell’interrogatorio, dinanzi a quel tribunale ridicolo fatto di un paio di vecchie volpi della politica e uno stuolo di ragazzini imberbi, egli proclama, a voce alta, e con orgoglio, che è fascista. E fascista sarò all’infinito.

Poi si siede sui banchi, a braccia conserte, quasi pacificato e sereno, con un sorriso che già guarda lontano, guarda oltre. E di nuovo un coro di insulti, grida e pernacchie s’abbatte su di lui di fronte ad un fotografo coi suoi flash frettolosi e irrelati, e alle spalle un partigiano con la pistola spianata alla sua testa, come se avesse qualche possibilità di smaterializzarsi e tentare una fuga.

Sui banchi di quella scuola-tribunale passa la notte, attorniato dai ragazzini, minacciosi con i loro mitra spianati, poi vengono altri e uomini e donne di partigiani, che gli gridano in faccia tutti gli insulti e le maledizioni possibili. Il mattino dopo si sente svuotato, privo di ogni energia. E’ duramente provato, spaurito, stanco, ma non domo. E’ il 29 aprile 1945. I partigiani hanno già ucciso Mussolini, e ora lo stanno portando a Milano, in Piazzale Loreto, per esporlo al pubblico ludibrio, e seviziarne le spoglie, come hanno fatto con gli altri cadaveri. “Mussolini è morto! Lo abbiamo giustiziato!”, grida trionfante un partigiano dai capelli rossi. Starace non ci crede, non ci vuole credere. Nella sua ingenuità, ad un certo punto della sua vita, aveva realmente creduto che il duce fosse immortale. Ma l’esplosione di gioia dei giovanissimi partigiani, e le grida trionfali della folla e delle donne, (“che avevano smesso di preparar Balilli a la patria”) che si riversa per le strade è così grande, straripante, che non gli lascia più dubbi. Il duce è morto, è il tragico epilogo d’una lunga, e dolorosa avventura che aveva avuto anche lui, il cretino obbediente, l’ombra del duce, il mastino, il caporale ottuso, il ragioniere fesso, il cavalcatore e il saltatore folle, il rompicoglioni, tra i protagonisti della storia di nero vestita.

I fascisti avevano lastricato dei più verbosi buoni propositi la via dell’inferno. Tutto aveva cospirato d’impeto in quella tromba d’aria e di polvere che levò se stessa fino a baciare il culo delle nuvole, struggitrice d’ogni separazione dei poteri e del vivente essere che si suol chiamare la patria

Lo trascinano fuori dall’aula, lo caricano su un autocarro scoperto, gli fanno fare il giro della città, come usava un tempo, alla gogna. La popolazione milanese lo insulta, gli sputa, lo irride, gli lancia sassi, escrementi e manciate di terriccio molle. Il suo volto diviene rapidamente una maschera nera, di sangue e melma. Arrivano a Piazzale Loreto, al cospetto del cadavere di Mussolini che pende a testa in giù dalla tettoia di un distributore di benzina. Starace vede solo lui, non distingue, non riconosce i cadaveri degli altri giustiziati che, in uno scenario macabro, orrendo, da film dell’orrore, egualmente pendono a testa in giù. Non ravvisa nemmeno le fattezze dell’amante del duce, Claretta Petacci. Lui non ha occhi che per Mussolini, contempla il suo corpo inanimato e rivede per un attimo quelle giornate così splendidamente romane, con le parate, il duce avanti, e lui due passi dietro, la sua ombra nera al sole dorato di Roma che batte sul travertino e su ogni facciata delle chiese, attimi di pura gioia, di grandezza, di felicità, e poi quel suo modo sprezzante, crudele di offendere: “Voi siete stato sempre un cretino, prima eravate un cretino obbediente, ora cretino e basta“. Il caporale Starace vede le spoglie dell’uomo che ha dominato tutta la sua esistenza, che lo aveva glorificato e umiliato, che lo aveva portato troppo in alto, senza averne il merito, e spinto troppo in basso, senza averne colpa. Era stato la sua ombra, il suo bulldog, in vita, e ora si trovava lì, pronto a morire, proprio come un cane fedele.

6. La marcia su Gondar

E’ diabolicamente attratto da quel corpo esanime, così come ne aveva subito il fascino irresistibile negli anni memorabili del trionfo. Capisce che tutta la sua vita è stata un trionfo effimero, capisce che è giusto ora pagarne il prezzo. Mussolini era già morto da tempo, è stato vivo solo attraverso me, pensò, con me egli era onnipresente, anche se astratto, irreale. Ero io che portavo con me il duce alle cerimonie, ero io che facevo i suoi discorsi. Ero io il Vattel francese, il più grande organizzatore di spettacoli e parate del XX secolo. Nessuno potrà dimenticare le parate in via dell’Impero e resta memorabile, indimenticabile quella per la visita del Fuhrer, che spinse Trilussa a dire “Roma de travertino, rifatta de cartone, saluta l’imbianchino, suo prossimo padrone” Che splendide erano state quelle giornate romane, quando il sole dorato baciava il travertino di ogni facciata della chiesa, e lui, a due passi dal duce, passava in rassegna la milizia! C’era qualcosa, un non so che somigliava alla felicità…Sì, in fondo aveva avuto anche momenti di autentica gioia, in quelle inalazioni d’ambrosia col naso e poi giù giù, nei polmoni, stando vicino all’uomo più potente della nazione, novello Cesare, tradito, pugnalato, come Cesare, appunto.

Fate presto, invece di picchiare e di insultare un uomo che state per fucilare”, dice con orgoglio al giovane partigiano che gli sta a fianco e lo spintona col calcio del suo fucile.

Lo portano davanti al muro dove sarà fucilato, anzi mitragliato. “Una scarica di mitra è realtà, mi va bene, certo. Ma io chiedo che dietro questi due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni, o le irragioni del fatto. Il fatto in sé non è che il morto corpo della realtà, il residuo fecale della storia.

E forse rivide in quegli ultimi attimi, in un rapido flashback, tutta la sua esistenza. Ripensò se stesso tra le corti e i vicoli di Gallipoli, o seduto sui gradini della cattedrale di Sant’Agata, insieme ad un gruppo di vagnoni di cui diventa subito il capo: è il più veloce, il più agile, il più forte, nessuno può stargli pari, anche in mare, quando vanno a pescare alla Purità. Ma nella scuola non eccelle, e presto si stufa della vita nel piccolo borgo natio e a sedici anni se ne va a Venezia dove completa gli studi di ragioneria. Poi un matrimonio, a soli vent’anni, con la bella Ines Massari, che parcheggerà per tutta la vita a Gallipoli, e la carriera militare, ufficiale dei bersaglieri, la Grande Guerra che vede il suo coraggio premiato, i figli, Fanny e Luigino, lei tutto il padre, lui tutto la madre. E infine l’uom fatale che gli affida i primi incarichi di manganellatore nel Trentino, la marcia su Roma, l’organizzazione della Milizia, l’elezione a deputato, vice segretario, luogotenente della Milizia, membro del Gran Consiglio, Segretario del partito. E poi la guerra in Etiopia, la lunga marcia alla conquista della città Santa, Gondar, dalla cui esperienza nasce il famoso, quanto bruttissimo, libro La marcia su Gondar, – che non piacerà affatto al duce – ed anche il Lungomare Gondar, a Gallipoli, che sarà cancellato solo nel 1980, sostituito da Galileo Galilei, dal Sindaco comunista Mario Foscarini. Flash di memoria con il piccolo Gioacchino, prediletto dal nonno, per il quale ferma il treno alla stazione Termini (gli regalò un cockerino), quel Gioacchino Stajano che prenderà parte a La dolce vita di Fellini e diventerà poi “Gioacchina”, donna, di rara sensibilità estetica e artistica.

7. Viva il Duce!

Poi la decadenza, la guerra in Albania, le ferite, il triste ritorno con la lettera del duce sulla scrivania. “Ritengo concluso il vostro ciclo. L’opera da voi svolta in questi ultimi tempi non mi ha soddisfatto”. La solitudine sconfinata, venata di ingiustizia. “Ho trascorso il Natale solo come un cane”, scrive a Fanny, che gli manda la scapece e lu mieru, e gli dice Papà, torna a casa. Ma lui si ostina a rimanere nella sua villa di Ostia, in attesa di tempi migliori: “Le giornate, tutte le giornate, sono molto tristi per me, ma devo aspettare qui la mia resurrezione” E poi il carcere degli Scalzi, a Verona, dove erano i traditori Ciano, Gorini, Tarabini e De Bono, a supplicare e a piangere. Tutti fucilati, anche Ciano nonostante Frau Beetz e la stessa Edda Mussolini.

Ora toccava a lui.

Eccomi, sono pronto. Fate presto”.

Il capitano Marino, nome di battaglia di Angelo Galbiati, fa disporre il plotone che deve eseguire la condanna mediante fucilazione alla schiena. Ma il plotone non è ancora pronto. Starace è stato portato sul luogo di esecuzione e volge la faccia al muro: “Fate presto!”, dice ancora una volta. E vede una barca sul mare, un cavallo bianco nella città santa di Gondar, un ghiacciolo nella luna.

Fate presto.

Il capitano Marino ordina il fuoco, i mitra crepitano e Starace cade, gridando:

Viva il duce!”, nell’attimo stesso tenta di alzare la mano per un ultimo saluto fascista, ma il gesto rimane a mezzaria, incompiuto, e si tramuta in uno sberleffo grottesco. “Gli uomini no stanno ovunque, tra i nazisti, i fascisti, ma anche fra i partigiani“, aveva detto Giuseppe Inzeo.

La sera, i cadaveri di Piazzale Loreto, staccati dai ganci del distributore di benzina, vengono trasportati all’obitorio di via Ponzio in misere casse di legno grezzo. La salma di Mussolini subirà trafugamenti e penose vicissitudini, mentre il riposo di Starace non verrà scosso da altri eventi fino al 1957, quando un Comitato di Sannicola, paese fantasma, ne chiede e ottiene le spoglie, tumulate nel camposanto del suo luogo natio.
Romano Mussolini, il più piccolo dei figli del duce e il meno contaminato dalla retorica fascista, disse che:

…l’allontanamento di Starace coincise con la decadenza del partito fascista. E’ vero che la guerra cominciò ad andare male, ma proprio per questo motivo Starace sarebbe stato meglio al suo posto, meglio di qualsiasi altro, certamente non avrebbe agito come Carlo Scorza che non mosse un dito per difendere mio padre la notte del 25 luglio 1943.D’altronde la stessa morte da valoroso di Starace ha chiuso una vita discussa ma non inutile.

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