E’ un Mercoledì, sono le due. Mi sono presa un’ora per mangiare il mio salmone al forno. Sì perché io odio mangiare male e di fretta, non sono un’aziendale che salta i pasti in nome della mission e degli obiettivi. Senza serenità non si raggiunge nulla. In questa mia visione cosmica, da consulente olistico, creativamente produttiva mi appresto a scrivere un articolo. Ma prima, apro la mia mail.
Gli occhi scorrono velocemente, mmh dunque. Vediamo. Sconti su outlet virtuali, inviti ad eventi. Bene. Messaggi da facebook che intasano, posta dalla redazione,collezione Vuitton per San Valentino, viaggi romantici 40% di sconto se prenoti ora. Non è il caso. Inutile, leggerla. Qualche “better than viagra pills” di cui non ho ancora capito l’ostinazione, Ma -attenzione- c’è anche questa.
“Siamo lieti di comunicarle che la premiazione del concorso Fili di Parole” avverrà il 3 febbraio a San Lorenzo. Lei è in finale con il suo romanzo, insieme ad altri due concorrenti. Premio: la pubblicazione”.
Dunque, sto sfiorando il mio sogno. Dopo tanta fatica, ho la mia possibilità. Vivrò tutta la settimana in ritiro, come un monaco tibetano in attesa del passaggio del Dalai Lama. Faccio persino una di quelle promesse a me stessa, un patto col destino, che sin ba piccola accompagna gli eventi importanti della mia vita: non comprerò quelle calze tanto carine fino a dopo il giorno della premiazione. Come se ogni rinuncia fosse l’astinenza purificatrice per meritare “la ricompensa” . Passano i giorni, ed io li vivo come uno spazio unico, un separé al di là del quale c’è un nuovo mondo: quello che mi corrisponde. La gente mi parla, ma io sono altrove. E quell’altrove è una nuova vita, in quella terra favolosa dell’esordio letterario. Cerco di non pensarci, ma non è proprio umana l’indifferenza, quando si tratta solo dell’obiettivo della tua vita. Ok, ma io ci provo, tento di non pensarci, ve lo giuro. Vado a ce na fuori e gli amici si congratulano “Vane, la tua è comunque una vittoria, sai quanti manoscritti mandano per i concorsi? Almeno 60 al giorno. E poi il tuo romanzo ha un grosso potenziale di vendita. Tu li farai guadagnare.”“Lo so, io voglio pubblicare, non è la vittoria che mi interessa, ma è la pubblicazione. Io ci credo nel mio romanzo. L’ostacolo è trovare un editore che crede in te”.Il Giovedì arriva presto. In famiglia vengono fatti tutti i gesti apotropaici possibili. E per la fatidica sera, mi preparo anche un peperoncino rosso da tenere in tasca. In un'intervista a Nicolas Vaporidis ho letto che lui ne tiene sempre uno in tasca, così nonostante le mie origini nordiche, faccio mio un rito dalla mediterranea efficacia. Non dovrei, ma immagino già il momento in cui diranno il mio nome, la copertina, la presentazione del libro. Insomma faccio tutto ciò che non dovrei fare. Come al solito. Uno sguardo all’armadio, ma scelgo senza titubare: pantacollant, stivale di Fendi e pull viola. Poi passo a fare la cosa che più mi calma: truccarmi davanti allo specchio. Passare con precisione l’eyeliner sugli occhi, è un po’ come dipingere un ritratto. Ci vuole cura e calma, e la mano ferma e decisa. Ci vuole misura, perché il trucco così è leggero e raffinato e se c’è una cosa che mi dà un senso di pace è l’armonia raggiunta attraverso la precisione tecnica e quel mistero che chiamiamo estro. Ora sono pronta. Mentre cammino verso il locale, guardo la gente passare, questo è un giovedì che per gli altri è un qualsiasi giorno della settimana tra impegni e quotidianità, tra noie diffuse e speranze disattese. Ma per me -e per chi partecipa stasera- questo giovedì non è come gli altri. E’ importante. E’ un giorno di possibilità, e qualunque sia l’esito, è un giorno vissuto sentendo la vita pulsare. E’ un giorno in cui gioco me stessa, un giovedì di rischio per la mia passione per l’arte. Per questo è speciale: è un giorno in cui faccio qualcosa per me, un giorno in cui inseguo la mia strada. D’accordo, è piena di chiodi che ti sgonfiano le ruote. Ma è in ogni caso quella che io ho scelto. Questo pensiero mi fa sentire libera. Mi fa sentire a mio agio in un quartiere dove io non c'entro molto. Non ho una kefiah -preferisco le pailettes- non mi faccio le canne e preferirei uno Chateau Lafite ad una birra. Tra scarabocchi sui muri, studenti fuori sede che portano i cani a passeggio e manifesti di cover band di Rino Gaetano, arrivo al locale scelto dalla casa editrice. San Lorenzo è così, un posto dove si alternano trattorie a piccoli teatri, negozietti improbabili che sembrano rimasti al post-bellico e locali pronti ad ospitarti per l’aperitivo. Ha un’aria da pashmina arrotolata e dread locks, San Lorenzo. Mentre mi guardo intorno, penso che è un bel quartiere: è centrale, gli edifici sono tutti bassi, 4 piani al massimo, ed ha un fascino d’epoca, purtroppo rovinato da quelle scritte che nulla hanno a che vedere con quelle artistiche che trovi a Berlino o a Los Angeles. E poi c’è un’altra cosa, San Lorenzo emana tristezza. C'è un senso di romanità perduta nell'aria, una pesantezza che assumono sia gli oggetti, le strade, le case, sia le persone quando sono mal tenute e che qui è ostentata come se la trascuratezza fosse sinonimo di spessore intellettuale. Una saudade quasi brasiliana, come se la cultura che si fa qui, dovesse per forza far rima con le lacrime e il rigore. Come se chi legge dovesse essere serio e sfigato. Salvo qualche locale e alcune trattorie che hanno una dignità. Sono le sette, il locale apre. C’è tanta gente, tutti qui per assistere alla premiazione per le tre categorie in gara. Prendo possesso di un tavolino in fondo, vicino ad uno scomodo e basso pouff nero a cui rinuncio in favore di una sedia. L’editore premia il miglior racconto e dà la motivazione, premia la miglior poesia, e giù applausi e un breve reading. In un minuto tocca a noi, le sezione D, quella del romanzo. Mi giro verso mio fratello, disteso e sicuro della mia vittoria. Lui. Ma un pensiero mi attraversa il cervello come un panzer puntato su una trincea: ho dimenticato il peperoncino.“Per la sezione romanzi , con la motivazione di aver saputo usare un linguaggio forbito, ma non per questo poco accessibile…."Cazzo. Non sono io, il mio libro l’ho scritto per essere letto. Il mio romanzo fa sorridere, emoziona, commuove e diverte. E’ crudo, ma fa anche sognare. Il mio romanzo fa viaggiare. Parla di precariato, di call center e di un amore finito e forse chissà di uno nuovo. E il linguaggio scorre, perché è un libro che lascia il sorriso, volutamente per i lettori. E’ per i trentenni e per i loro genitori che riusciranno a capirli meglio leggendolo. Sì, non è snob e che male c’è? Ma certo ho la consapevolezza che non sono io la vincitrice, quando l’editore continua a parlare pronunciando il titolo che non è il mio“vince... Grottesche e Grottaglie”.Mi complimento con il vincitore, un filologo brillante con cui mi scambio l' e-mail che accoglie sorridente il mio saluto e mi dice che vuole leggere il mio romanzo. E io la sua raccolta di racconti. Mi dirà -fra qualche giorno- che non sa se scriverà mai un romanzo, perché gestire uno scritto così vasto, è diverso da controllare un racconto.Ma il racconto non è cosa facile. Ha un respiro breve, è icastico e per un esordiente non è il modo più semplice di pubblicare. Dunque mi compiaccio -attenzione non ho detto che sono felice, sarebbe da ipocriti- che il premio sia andato ad una persona che ha il senso della misura e che ama le parole e la letteratura, e gli auguro il più vincente degli esordi, sperando di raggiungere anche io il mio sogno. Perché il mio sogno è una mia necessità, perché un artista non può fare l’impiegato, diceva Paul Newman e perché una volta che hai chiaro il tuo destino, devi compierlo. Forse giovedì non era ancora il momento giusto. Forse il destino non era pronto, ma ha soffiato ed io l’ho sentito. “Non crucciarti. Tu hai il dono”.Mi dice un altro scrittore. Sì, ma è inevitabile. Lo ammetto: sono dispiaciuta. Il dono è fatica. Il talento si allena con la disciplina. Perché chi scrive di professione lo fa per essere letto e per vedere il proprio libro accanto a quello dei propri maestri. Solo che tornando a casa trovo una mail della mia caporedattrice “Ho ricevuto il tuo ultimo pezzo per GM, non so più che complimenti farti, sei una penna raffinata è davvero come sempre ben scritto, sei brava e tu avrai un grande successo.” Se una giornalista dalla penna raffinata d’eccellenza e di grande esperienza come lei ti scrive queste parole, questa è la tua intima vittoria.