ADAPT parte 2

Creato il 27 aprile 2010 da Gato
Le mie settimane a Londra, oltre ad essere state piene di grossi allenamenti sono state cariche di discussioni, nuovi concetti e prospettive inesplorate. Vediamo qui di formalizzare un po' le nuove idee che mi son fatto.
  • Classi, corsi e palestre. Fermo restando che continuo a trovare inutile e pericoloso l'allenamento in palestra (ma per me stesso, non per gli altri, per ragioni che esulano il Parkour in senso stretto), ho interiorizzato parecchie idee di Parkour Generations, dopo lunghe conversazioni con Johann, Blane, Dan e Forrest. Il parto doloroso è questo: non possiamo pretendere che chiunque pratichi il Parkour, lo pratichi con la stessa profondità con cui lo pratichiamo noi; dobbiamo accontentarci di trasferire quel poco di buono che ogni praticante ha voglia di assimilare. A questo punto quindi, le classi, i corsi in palestra e pure le lezioni nelle scuole, mostrano un altro lato: il Parkour sarà un evento lieto, un modo per stare in forma e per migliorare il proprio controllo sul movimento nello spazio, una scusa per fare un po' di moto o anche solo un antidoto contro l'obesità per un bambino sovrappeso. Ebbene si, non tutti i praticanti di Parkour diventeranno dei traceur, ma ciò non vuole assolutamente dire che chi passa dai corsi non possa cominciare a vivere il Parkour come l'abbiamo vissuto noi.
  • Standardizzazione e certificazioni. Beh, su questo punto ero già abbastanza convinto. E' un bene che siano stati i ragazzi di Parkour Generations e della ADDA a porre i paletti e a far riconoscere le certificazioni. Sono più che mai convinto che sia l'unico modo per mantenere pura la disciplina, seppur con la possibilità di trasmetterla a vari livelli. E' come nelle arti marziali, nessuno nega che un karateka debba recarsi in giappone per avere l'esperienza più completa e vera della disciplina (ed è sicuro che debba aspettare il consenso di un maestro certificato prima di insegnare), ma un corso tenuto da un maestro italiano ben preparato (e certificato dai maestri giapponesi) può cambiare la vita di un ragazzino di 8 anni. Magari il ragazzino non sarà mai un gran karateka (oppure lo diventerà, andando a studiare in un vero dojo, seguendo le indicazioni del suo primo maestro che è un vero karateka), ma quanto bene gli potrà aver fatto? Credo molto.
  • Lavoro. Alcuni del collettivo Parkour Generations riescono a vivere di Parkour, trasmettendolo e continuando a crescere nel contempo. Posso assicurare che ho toccato con mano la difficoltà di questa vita: il lavoro, per quanto a Londra ce ne sia parecchio, non arricchisce nessuno, davvero. Forse che anche in Italia si possa sopravvivere in questa nocchia? Credo che proverò a scoprirlo.
  • Struttura dei corsi. Certo c'è da dire che il tipo di insegnamento che portano avanti PkGen e ADDA è ben diverso dai corsi di "parkour" in palestra che si vedono in rete. Posso assicurare che la qualità non si è abbassata e che non si fanno "le cose che i bimbiminchia hanno voglia di fare così c'è più mercato". C'è una rigida deontologia professionale.
Nessuno, di certo non io, si sogna di affermare che per diventare un traceur c'è bisogno di seguire un corso. Ma quanti di noi sarebbero ciò che sono senza il loro primo workshop di parkour? Quanti di noi hanno desiderato spesso di avere un mentore? E quanti si sono accorti di quanto più efficaciemente si impara seguendo un esempio? Il punto centrale è: chi ha tenuto quel primo workshop? Chi era l'esempio che abbiamo seguito? Noi abbiamo avuto la fortuna di conoscere i fondatori, ma cosa succederà quando loro non avranno più il tempo o la voglia di continuare l'opera? Lasceremo morire il Parkour? O chiederemo loro il permesso di portarlo avanti?

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