Affront a Venise, il modello Cardin per l’eternità

Creato il 27 luglio 2012 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Succede che un novantenne che comincia a temere di non essere immortale, voglia lasciare un’impronta del suo passaggio sulla terra. Succedeva che un tempo erigessero le loro tombe, piramidi o mausolei e in fondo l’ha fatto anche Berlusconi. Oppure che volessero essere ricordati tramite monumenti o cenotafi, come Mitterrand, ma in fondo anche Cacciari che ha ripiegato su un ponte ardito quanto inutile e sdrucciolevole.
Pierre Cardin ha scelto una testimonianza di sé più ardua, una celebrazione più imponente, un dolmen sovradimensionato, un gigantesco obelisco tutto di vetro, con tre torri a vela, alte 250 metri unite da sei dischi, in 60 piani, per la superficie totale di calpestio di 175.000 mq.

Se lo è disegnato lui come una volta disegnava robe manteaux color pistacchio in un delirio mefistofelico e visionario, tre steli falliche in memoria di migliori vitalità e a futura memoria del sarto di origine veneta: una allucinazione perfetta per il deserto dell’Arizona o per quello del Dubai. Peccato che nel rispetto delle sue radici mai dimenticate invece che in un emirato Cardin abbia deciso di piazzare il suo miraggio nel posto più celebrato e vulnerabile del mondo, a Venezia dove una volta vigeva la regola, pare dimenticata, che nessuna costruzione potesse essere più alta del campanile di San Marco. Certo, mica lo erige in Piazza San Marco, no, no. Si accontenta di innalzarlo pudicamente a Marghera che tanto là «si può costruire praticamente di tutto senza vincoli e senza vergogna», come ha detto qualcuno. Tanto che il progetto è stato presentato in conferenza dei servizi e tutti i presenti si sono dichiarati in linea di massima favorevoli alla gustosa ipotesi progettuale. Salvo l’ENAC (Ente nazionale aviazione civile) che sommessamente ricorda che l’imprudente intervento supera di ben 110 metri i limiti previsti dai vincoli di sicurezza per la vicinanza all’aeroporto.

Forse l’audace designer vuole offrire ai turisti mordi e fuggi, quelli che scendono dalla navi condominio malate di gigantismo e accolte trionfalmente da quel che resta della Serenissima, facendole passare per il Bacino di San Marco, una suggestione in più, un colossal remake dell’11 settembre, con l’aereo che entra nel suo monumento come fosse di burro. Complice il presidente della Regione Zaia che spera “che il ministro Passera si metta una mano sul cuore di fronte ai divieti posti da ENAC e impugni una decisione che andrebbe contro il Veneto e contro tutto in nord”.

Non stupisce tutto questo consenso di enti e istituzioni che da mecenati si sono mutati in piazzisti del nostro territorio e delle nostre ricchezze: per chi vuol crederci l’investimento sarebbe tutto privato, un miliardo e mezzo di euro, e troverebbero occupazione 4.500 addetti. L’augusto filantropo poi ha in animo di fa produrre proprio a Venezia gli arredi e le chincaglierie per l’albergo e ristorante con vista mozzafiato a un qualche sessantesimo piano. E chi potrebbe dire di no, non certo una città che da archetipo si va mutando in stereotipo dell’affondamento, immagine allegorica della decadente rovina, presa per la gola dal ricatto di un turismo incolto e snaturato.

È successo qualcosa di terribile in questo Paese e in questa città. Se si saccheggiano e svendono i nostri giacimenti. Se si oltraggia la bellezza e la cultura. E se si scavalcano regole e leggi, si aggirano prudenze e cautele per opere mastodontiche e pesanti, mostruose e offensive dell’ambiente, mentre non si rigenera l’edilizia scolastica e non la si mette in sicurezza, non si tutela e non si effettua nemmeno l’ordinaria manutenzione del patrimonio artistico, non si restituisce all’urbanistica il ruolo che le compete e che non è certo quello di esercitare un controllo sociale segnato dalle disuguaglianze di censo e dall’iniquità. Si deve essere successo qualcosa di terribile se una città, con un formidabile passato di accoglienza di creatività, genio, talenti e ingegno, diventata così immota e spenta da rifiutare l’ospedale di Le Corbusier, il palazzetto di Wright o il centro congressi di Louis Kahn riceva con spirito grato un oltraggio per la bellezza, la sua storia e per il buonsenso. Anche quello commerciale, che si sa che le opere faraoniche e i loro cantieri hanno ricadute effimere, quanto è potente la loro pressione sul bene comune, ambiente, risorse fisiche e culturali.
E’ lo spirito del tempo, che si sa non è il tempo dello spirito. Ma quello del profitto dissennato al quale si sta per innalzare un totem, anzi un tempio al dio più crudele, il dio mercato.


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