Quante volte ho letto variazioni sulla frase "sei tu che hai scelto di scrivere, non lamentartene?"
Quante volte? Paiono migliaia, se mi fermo a pensarci.
Ognuna di esse mi ha lasciata ricurva, vergognosa, necessitante una ricomposizione mai completa. Sono sempre incompleta, sempre forata, svuotata.
Come articolare l'oscena difficoltà sottesa a questo processo nel momento in cui non è dato descriverne le cavernosità, i dirupi, le paludi?
Come non riconoscere che tali difficoltà appartengono a ciascuno in modo diverso, con le aggravanti del caso?
Come non esplicitare il modo il cui sistemi di distribuzione della legittimazione dell'autore e dello scritto si intersecano con le nostre urgenze, le nostre afonie?
Flaubert fu coltivato come autore ben prima che avesse pubblicato alcunché. Gli furono concessi spazio e tempo per scrivere. E poi: un'amante a Parigi. La possibilità di sfogare frustrazioni e difficoltà in un brodo accogliente.
Io parlo di queste cose e ne parlo fino allo sfinimento. Ne parlo da alticcia, da sobria e da ubriaca. Parlo di Flaubert e di Francis Scott Fitzgerald e di Philip Roth. Ma in realtà le persone di cui sto parlando sono quelle i cui nomi sfuggono.
Mi è stata instillata una vergogna assoluta nello scrivere autobiografico e autoreferenziale di scrittura. Me ne sono resa conto solo di recente. Questa vergogna assoluta è andata aumentando con il passare degli anni, ma ciò non significa che io stata in grado di smettere, anche se ci ho provato.
Ora mi chiedo i perché e percome di questa vergogna. E credo di conoscere le risposte.
Nella disperazione più nera divento la persona egocentrica che finisce a parlare del senso delle parole e del modo in cui è dato o non è dato usarle. Ore ed ore di guaiti ed escavazioni di fossati attorno a quelle più sacre. Una volta raggiunto il fondo, state certi di trovarmi in stato semi-catatonico, intenta a dire che il punto è che devo poter scrivere per funzionare come essere umano.
Ho scelto di diventare questa persona? Non lo so. Sono anni che cerco risposte che mi diano quiete, che mi permettano di godere della luce del sole e della nullafacenza. Quando ho trovato la via della sociologia della cultura, ho avuto fin da subito l'impressione che ci fosse verità nel voler ragionare dell'opera in un'ottica che enfatizzasse il contesto, in opposizione alla tradizionale tendenza a riconoscere meriti solo ed esclusivamente all'autore, alle sue rovine interiori. Ma dopo il primo incontro seminariale in un'aula grigiastra in quel di New York, non ho potuto far altro che fuggire, scegliere di non ascoltare.
Sono la prima a dire che quest'oscurità non è dono di natura
che è tutta una questione di esercizio
ma restano domande alle quali non so dare risposta,
e le risposte che sono già state date non mi soddisfano.
Per quanto mi sforzi, finisco sempre per diventare quel personaggio, sempre lo stesso;
la persona strana, poco adatta,
quella che suona e appare inappropriata.
E mi sforzo di non esserlo.
Indosso gli abiti più neutri in mio possesso
Bilancio l'uso di parole appropriate e parole storte, tastando climi e voci altrui.
Metto piede,
per l'ennesima volta,
in una scuola superiore,
e dopo pochi minuti noto che sono sempre le stesse persone a ridere nascostamente di me.
Le stesse persone.
Soppeso l'enormità dei ruoli che diventano nostri.
Ho finito le superiori nel 2006. Ho quasi dieci anni più di loro. Resto ridicola, a quanto pare. Ancor di più quando dichiaro la mia ignoranza, quando rifiuto il potere insito nell'anzianità.
Il mio ruolo, in quel contesto, è sempre lo stesso?
"Come riescono ad accorgersene?", mi chiedo. "Come riescono a riconoscere in questa venticinquenne la quindicenne che ero?"
Odiavo le scuole superiori. Allora perché continuo a tornarci?
Ho cominciato a scrivere davvero all'inizio delle superiori.
Ho letto di recente una frase che diceva più o meno questo:
si scrive per sopravvivere, e per vendetta.
Registri diversi per ogni destinatario. Impreviste commistioni.
I rari casi in cui si è usciti dalla pagina.
I rari casi in cui le metafore si sono stratificate fino a diventare materia densa e incandescente. I rari casi in cui tale materia è tracimata, raggiungendo e infiltrando ogni altra cosa che scrivevo.
Ora mi trovo a dover rimuovere certe metafore. Le vorrei conservare, ma esse hanno senso solo in relazione ad altri, solo se usate da altri.
Erano luoghi. Talvolta, nella solitudine, li raggiungevo per trovare la quiete.
Cerco di non scrivere ciò che potrebbe apparire come una lamentela. E poi: mi odio nel momento in cui sento il dovere di spiegare la necessità di ciò che sto facendo, per anticipare le critiche che non verranno. Cerco di trovare un'armonia tra voci che si contraddicono.
Cerco di non dire che da settimane, forse da mesi, scrivo senza addentrarmi nei territori più oscuri. Ci provo ogni volta, e ciò che vi trovate a leggere poi voi è tutt'altro.
Come il personaggio dello Sparviere, sono stata fiaccata dall'Ombra.