articolo pubblicato su OsservatorioIraq
di Claudio Bertolotti
La morte del cinquantatreesimo soldato italiano in Afghanistan ha riacceso i riflettori dei media nazionali su una guerra passata in secondo piano e, complice il processo di semplificazione mass-mediatico, da più parti presentata come in fase di conclusione; almeno per quanto riguarda l’impegno di truppe straniere. Non è così, poiché l’impegno della Nato in Afghanistan – come formalizzato in occasione del vertice interministeriale della Nato che si è tenuto il 4 e 5 giugno a Bruxelles – proseguirà, sotto altra veste, dopo il 31 dicembre 2014.
Il 1 gennaio 2015, archiviata la missione Isaf, avrà inizio la Resolute Support Mission della Nato, con buona pace di chi chiede un ritiro incondizionato delle truppe straniere dall’Afghanistan.
La missione dunque cambia denominazione, dimensioni e, verosimilmente, mandato. Ma non cambiano i principi regolatori di una presenza a lungo termine da tempo annunciata.
E non poteva essere diversamente: troppo elevato il rischio di vedere collassare lo Stato afghano, incapace di sopravvivere con le proprie sole forze, e il suo apparato di sicurezza, al momento impreparato e inadatto a mantenere il controllo del territorio. Come riporta lo statunitense Government Accountability Office, solamente il 7% – 15 su 219 – dei battaglioni dell’esercito e il 9% – 39 su 435 – delle unità di polizia sono in grado di operare in maniera indipendente ma con l’assistenza dei consiglieri. E i gruppi di opposizione armata hanno aumentato la pressione colpendo proprio quel pilastro fondamentale del processo di transizione gestito dalla Nato, la formazione delle forze di sicurezza afghane.
Ora, se l'obiettivo primario della Nato è di rendere le autorità afghane autonome e in grado di svolgere il proprio compito, non è possibile pensare di lasciarle sole a gestire la critica situazione politica, sociale e militare dell’Afghanistan contemporaneo. Seguendo questa linea strategica, il dialogo negoziale tra Washington e Kabul, che ha coinvolto il comando dell’Alleanza atlantica, ha portato a una soluzione di compromesso basata su una riduzione rilevante della presenza di soldati stranieri – ma comunque sufficiente per intervenire in maniera efficace “anche” a sostegno delle forze afghane – a fronte del mantenimento di nove basi militari sotto giurisdizione statunitense e l’istituzione di cinque comandi militari assegnati a Stati Uniti (zone meridionali e orientali – le più insicure), Germania (area settentrionale), Italia (area occidentale, nella quale ha attualmente la responsabilità del comando-ovest della missione Isaf) e Turchia (area centrale, Kabul).
Quanto discusso dai cinquanta ministri della difesa dei paesi contribuenti alla missione in Afghanistan dovrà essere formalizzato dai rispettivi parlamenti nazionali; non mancheranno discussioni animate e contrapposizioni ideologiche verso la partecipazione a una missione in zona di guerra da più parti ritenuta non opportuna, ma la real-politik, e il rischio di rinuncia dei risultati sinora ottenuti (anche sul piano dei diritti) impone una presa di posizione responsabile. In questa direzione va l’impegno dell’Alleanza atlantica sancito a Bruxelles.
Va da sé che questa scelta avrà un ritorno anche sui piani strategici a lungo termine del principale contributore (e finanziatore) alla missione in Afghanistan, gli Stati Uniti, di certo non disinteressati a mantenere una presenza in Asia: questo è un fatto.
Il Segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen, ribadendo un concetto già espresso, ha precisato che la nuova missione non sarà Isaf con un altro nome, sarà bensì diversa, ridimensionata nei numeri e il suo scopo sarà addestrare, consigliare e assistere le forze di sicurezza afghane e non sostituirsi ad esse, puntando al rafforzamento delle «istituzioni nazionali, come i ministeri deputati alla sicurezza, i corpi dell'esercito e della polizia». Negli ultimi undici anni – ha dichiarato Rasmussen – «abbiamo dato gli afghani uno spazio per costruire il loro futuro: continueremo a dare il nostro sostegno, ma saranno gli afghani a dover decidere le proprie sorti». Questo implicitamente apre alla libertà di azione dell’Afghanistan nella collaborazione regionale – in primis con il Pakistan – e al dialogo e al compromesso con l’opposizione insurrezionale.
Al di là delle esternazioni politiche dettate da ragioni di opportunità, l'adesione dell'Italia non rappresenta né una sorpresa, né un cambio di strategia, dato il ruolo di primo piano in seno alla missione Isaf e l’impegno prolungato nell’area di Herat. Se i partner occidentali dovranno addestrare 352 mila membri delle forze di sicurezza afghane, l’Italia farà la sua parte con i Military/Police Advisor Team (Mat/Pat) – preparati presso il Centro Addestramento Alpino dell’Esercito di Aosta – nonostante i vertici militari siano sempre più preoccupati dal concreto pericolo degli attacchi green on blue, la minaccia interna delle reclute afghane che attaccano (e uccidono) i propri istruttori stranieri.
In sintesi, quello definito dai ministri della Difesa (Nato e “non-Nato”) a Bruxelles è un obiettivo ambizioso e difficile, certamente non raggiungibile in pochi anni. Dunque, ancora una volta e a dispetto delle esternazioni politiche dettate dall’opportunità del momento, la presenza nel teatro operativo afghano rimane confermata come impegno di lungo termine, anche per l’Italia.
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