Boubacar Traoré
Presso il Teatro Manzoni di Milano (clicca: MAPPA), a partire dalle ore 16.00 di mercoledì 14 settembre 2011, MITO SettembreMusica dedica, come fece l’anno passato, una giornata all’Africa. Tre appuntamenti con la musica della grande Africa all’insegna del métissage culturale, con un percorso ricchissimo alla scoperta delle radici del suono e delle sue trasformazioni nella società contemporanea. Tre artisti di calibro internazionale guidano l’itinerario che parte dal cuore d’Africa, passa per la sua costa occidentale e giunge sino a Parigi, una delle città che del melting pot fanno insegna.
Dal Congo a Parigi passando per il Mali: tre concerti per l’African Day di MITO SettembreMusica. In scena il métissage culturale
Sconto African Day tre concerti a € 23
African Day MITO SettembreMusica
ore 16.00
Nkolo
Lokua Kanza, voce, chitarra
Didi Ekukuan, basso
Pathy Molesso Ebila, chitarra
Mafwala Komba, percussioni
Malaika Lokua, Roselyne Belinga, coriste
Posto unico numerato € 5
ore 18.30
Mali Denhou
Boubacar Traoré, voce, chitarra
Madieye Niang, calebassa
Vincent Bucher, armonica a bocca
Posto unico numerato € 10
ore 21.00
Orchestra National de Barbès
Fatah Ghoggal, canto, chitarra
Taoufik Mimouni, tastiere, canto
Kamel Tenfiche, percussioni, canto
Ahmed Bensidhoum, derbouka, canto
Michel Petry, batteria
Youssef Boukella, basso
Medhi Askeur, canto
Hafid Bidari, canto, percussioni
Emmanuel Le Houezec, sassofono
Mustapha Mataoui, tastiere, canto
Khliff Miziallaoua, chitarra, canto
Posto unico numerato € 15
Il concerto delle ore 21 è trasmesso in live streaming sul sito www.mitosettembremusica.it
Il primo appuntamento, alle 16.00, è con Lokua Kanza, cantante, chitarrista, compositore, arrangiatore, autore e produttore, di padre congolese e di madre ruandese, in Francia da più di venti anni. Vincitore del premio come “Migliore album africano” agli African Music Awards del 1994, si distingue per gli arrangiamenti dal suono vellutato e le suggestioni melodiche, che rievocano la terra di cui conserva le radici che si fondono nel carattere universale della sua musica.
Alle 18.30 sale sul palco Boubacar Traoré, conosciuto anche come Kar Kar. Il bluesman del Mali dal talento leggendario, cresciuto ascoltando il kassonké, genere maliano per eccellenza, è stato paragonato ad artisti come James Brown, Chuck Berry ed Elvis Presley. I suoi brani rappresentano un’immersione totale nello spirito africano, non vanno analizzati, ma ascoltatati: un viaggio che ci trasporta nel cuore delle tradizioni del continente nero e dell’animo umano. Con la sua chitarra interpreta il blues in chiave africana, suonandola come una kora, tipico strumento a corde dell’Africa occidentale. Kar Kar è un artista che parla per immagini permeate di simbolismo, riuscendo a comunicare il dolore e le difficoltà dell’esistenza e del suo paese d’origine con una quiete e una dolcezza infinite.
Il percorso musicale proposto da MITO SettembreMusica termina alle 21.00 con la travolgente esibizione dell’Orchestra National de Barbès, per scatenarsi a ritmi contaminati, con suoni davvero primordiali e percussioni che rimandano a terre lontane, ma oggi sempre più vicine. La formazione, composta da dodici elementi provenienti da diversi paesi africani, prende nome dal quartiere più multietnico di Parigi, ai piedi di Montmartre, dove è nata e cresciuta negli anni. Il suono dell’orchestra ci trasporta in Algeria, Marocco, Mali, Senegal, ogni musicista conferisce alle melodie il proprio apporto personale, in una sintesi dei diversi linguaggi musicali. Una fusione che parte dalla tradizione africana dei Gnawa e arriva al jazz, passando per il raï, lo chaâbi, il rock, il groove e il rap, espressioni del mélange culturale contemporaneo e di una società in evoluzione, in cui non esistono più confini tra Nord e Sud del mondo.
Lokua Kanza (sito: http://www.lokua-kanza.com/)nasce a Bukavu (attuale Repubblica democratica del Congo). Il padre di Lokua, di etnia Mongo, è innamorato della polifonia. Sua madre è nativa delle montagne del Rwanda, paese celebre per la raffinatezza della sua musica di corte. Entrambi lo sensibilizzano sin dai suoi primi giorni alla bellezza delle melodie. Il suo amico Ray Lema gli regala la sua prima chitarra, da adolescente fa le sue prime apparizioni pubbliche nelle orchestre di rumba zairese. Poi parte per perfezionarsi al conservatorio di Kinshasa, dove familiarizza con il solfeggio, la composizione, l’armonia, l’orchestrazione e dove perfeziona anche la sua conoscenza strumentale. I suoi professori lo definiscono “brillante”, “lavoratore”, con “le orecchie grandi aperte”, “costantemente in ricerca”. Oltre alle chitarre e ai mandolini, acustici ed elettrici, classici, tradizionali e moderni, Lokua maneggia da esperto la sanza, il piano, le tastiere, il basso, le percussioni e il flauto. Nel 1984 Lokua va a Parigi per seguire i corsi del chitarrista jazz Pierre Cullaz. Rapidamente, il polistrumentista mescola la sua voce a quelle della comunità musicale africana, accompagnando Ray Lema, Papa Wemba, Sixun, Manu Dibango. Autore e compositore, scrive molto per gli uni e per gli altri e si costruisce pian piano un suo repertorio personale. Tiene il suo primo grande concerto parigino nel 1992 all’Olympia in “vedette américaine” d’Angélique Kidjo. L’album Lokua Kanza, prima opera personale, è registrato alla fine del 1992 e pubblicato un anno più tardi con enorme successo. All’inizio del 1994 la stampa si dichiara “affascinata”, “sotto choc”, “ammaliata”, “allucinata”, “rinvigorita”, il bardo è diventato una star e si vede assegnare a Libreville il premio “Migliore album africano” agli African Music Awards. Wapi Yo nel 1995 è il secondo favoloso successo, un album totalmente intriso di melodie fatate, trovate strumentali e voci sorprendenti, il tutto rivestito di arrangiamenti di seta. Seguono una serie di tournée nel mondo intero, dal Senegal alla Spagna, dalla Germania al Canada, dal Brasile a Los Angeles, scandite da momenti cruciali: la “Festa a Lokua”, nel luglio 1996, al Francofolies della Rochelle, dove Lokua duetta con Catherine Lara, Enzo Enzo, Papa Wemba et Youssou N’Dour; il festival di Montreux, lo stesso anno; l’Heineken Festival di San Paolo, nel 1997, occasione unica per unire la sua voce a quelle di Djavan, Al Jarreau e Chico César. Senza dimenticare diverse altre collaborazioni: è ospite nell’album Hors saison di Francis Cabrel e duetta con la cantante israeliana Noa. Ritorna sulle scene all’inizio del 2005 con Plus vivant, la sua quinta produzione personale e la sua seconda collaborazione con Universal Music Jazz France. L’opera è espressione di un grande musicista che si afferma come cittadino del mondo, artista senza frontiere e creatore di transculture. Esclusivamente interpretato nella lingua di Verlaine e Rimbaud, il nuovo lavoro di Lokua offre al concetto di métissage un’incarnazione pura e incontestabile, che propone una fusione perfetta tra il Nord e il Sud e ricrea alla sua maniera l’unicità che un tempo fu dei nostri antenati comuni. Un disco arrangiato in modo superlativo, quindici titoli interpretati con un cuore enorme ed eseguiti in compagnia di indubbi talenti.
Boubacar Traoré, (sito consigliato: http://www.africanmusiciansprofiles.com/BoubacarTraore.htm) detto Kar Kar, è una contraddizione armoniosa, un musicista di cui l’arte e la biografia sorprendono più per gli estremi che per l’equilibrio. Un idolo per tutta la costa africana occidentale negli anni Sessanta, dimenticato negli anni Settanta, riscoperto negli anni Ottanta e Novanta, complici le lunghe tournée in Europa e negli Stati Uniti. Nel corso della sua carriera è stato paragonato a numerose star della musica pop. È stato accostato a Elvis Presley, così come a Robert Johnson, Johnny Hallyday o Chuck Berry. Possiamo qualificare la sua musica come blues? Tutti questi paragoni dimostrano come sia impossibile definire le canzoni di Kar Kar. Tanto gli europei quanto gli americani hanno bisogno di tali confronti per comprendere un artista che, fondamentalmente, rappresenta un vero e proprio mondo musicale a sé. La sua musica non può essere catalogata come “blues” inteso alla maniera occidentale e non è nemmeno funky come quella del Padre del Soul James Brown, al quale viene talvolta paragonato. In tutto e per tutto, “blues” è una definizione di cui la sua musica gode in casa, nel Mali, tra i suoi colleghi e i suoi compatrioti. Solo se si considera il termine “blues” non come forma musicale ma come espressione di sentimenti, è possibile accostarsi al suo suono. Kar Kar fa quello che ha sempre voluto fare: musica. Per lui sono le melodie, le canzoni che il suo strumento accompagna cantando la seconda voce. “La chitarra mi ha attirato come per magia”, così prova a spiegare il legame con il suo strumento. Negli Stati del Sud non si sentono interpretare gli accordi di blues dei cantanti con le stesse affinità musicali della sua chitarra. La sua chitarra crepita come una kora. D’altra parte, il blues del Mali non ha le stesse strutture che conosciamo della versione americana. “Blues” serve come termine generale, quale tentativo di spiegazione, dal momento che il Kassonké, genere musicale con il quale è cresciuto Traoré, non può rappresentare una descrizione comprensibile a tutti. Nella musica di Kar Kar si sentono le sue origini del Mali occidentale, Kayes, la sua patria e la sua nostalgia. Il suo amore per questa patria e i suoi abitanti è grande anche se di tanto in tanto critica duramente gli amministratori del Paese e i suoi compatrioti. Nelle storie calme delle sue canzoni sono raccontati quarant’anni duri e pieni di tribolazioni. Eppure sono il calore e l’amore a dominare. Kar Kar è un cantastorie e, dal momento che si rifiuta di dare delle spiegazioni, interpretare queste storie non è un compito facile, se vogliamo comprenderne il senso profondo. Parla delle tradizioni africane, permeate di un simbolismo e di un esotismo che difficilmente svelano i propri segreti ai bianchi. Canta l’amore in tutte le sue sfumature umane e tragiche, l’amore per la sua prima moglie deceduta, per i suoi bambini, senza che il dolore – che pesa sul destino tragico della sua storia – appesantisca o faccia soccombere le sue canzoni sotto il peso dell’afflizione. Boubacar Traoré non è un musicista le cui canzoni possono essere spiegate, ma va analizzato per immagini e stati d’animo. È necessario abbandonarsi anima e corpo. E allora sarà forse possibile fare l’esperienza di un’Africa al di là dei cliché e dei pregiudizi.
L’Orchestra National de Barbès (sito: http://www.orchestrenationaldebarbes.com/Site/rendez-vous_barbes.html) assomiglia più a un’idra musicale che a una formazione. Composta da una ventina di membri è una struttura a geometria variabile. A seconda della disponibilità dei musicisti, una sera possono esserci tre chitarristi che conferiscono alla musica una colorazione africana, mentre il giorno successivo uno di loro può essere sostituito da un violinista. Algeria, Marocco, Mali, Senegal: l’Orchestra National de Barbès è la sintesi dei diversi idiomi musicali, il tutto in un gioioso mélange. Giungendo al dunque, perché “Barbès”? “Perché Barbès, recita la copertina del loro disco, è una parte d’Africa dispersa ai piedi del Sacro Cuore di Parigi. Si trovano il couscous e il pollo, i bar fumosi e le antenne paraboliche”. Un gioiosa banda di dodici musicisti che si scatenano sulla base di un frenetico mix musicale, che va dalla tradizione dei Gnawa al jazz, passando per il raï, lo chaâbi e il rap. Una storia che risale al 1995 e, malgrado la loro predilezione per il palco, specialmente per quanto riguarda l’album live Barbès (1997), si sono rivelati brillantemente in studio con Paulina (1999) e Alik (2008). La storia comincia nel 1987, quando Youssef Boukella, bassista del jazzista Jeff Gardner e originario d’Algeri, arriva a Parigi. Il genere raï sta conquistando il pubblico francese, aldilà la comunità maghrebina. Molto rapidamente, Youssef si fa notare accanto a Cheb Mami e a TakFarinas. È a partire da una sala prove di periferia, tuttavia, che si va a costituire l’idea dell’ONB intorno a Youssef e a quattro cantanti, nel 1995. Larbi Dida, ex cantante del Raïna Raï; Fateh Benlala, che ha dovuto lasciare la situazione calda di Algeri, dove si è formato musicalmente con i ritmi chaâbi; Aziz Sehmaoui, giovane marocchino di tradizione Gnawa; Kamel Tenfiche, nato in Francia, dove è cresciuto intriso di cultura rap. Personaggi chiave nell’evoluzione della musica del gruppo, il sassofonista dei Sixun Alain Debiossat, il chitarrista Olivier Louvel, il tastierista Jean-Baptiste Serré – musicisti francesi – e Tewfik Mimouni, apportano rispettivamente i colori del jazz e il rock. Il concept dell’Orchestra National de Barbès è creato da una piccola squadra ben decisa ad abbattere i vecchi cliché spregiativi nei confronti dei maghrebini, la Bougnoule Connection. Il segreto del successo dell’ONB risiede nella straordinaria facoltà di servirsi, per la costruzione del proprio repertorio, di improvvisazioni di ogni musicista durante i concerti. Anche il pubblico, coinvolto nella danza, gioca il suo ruolo e il successo dell’ONB è confermato da un primo album live, Barbès, pubblicato da Virgin France nel 1997. Questo primo disco è immediatamente seguito dai concerti alla Cigale e alla Grande Halle della Villette, poi da una tournée che passa per festival quali Printemps di Bourges, Musiques Métisses di Angoulême o la Jeunesse di Ivry-sur-Seine, che confermano il talento di ognuno. Ma l’ONB è ormai un collettivo di dodici musicisti e sono dunque presenti anche Fatah Benlala, Fathellah Ghoggal alla chitarra knopflérienne, Khlif Miziallaoua, Ahmed Bensidhoum alle percussioni, Michel Petry alla batteria e Mustapha Mataoui alle tastiere. Dodici individualità che apportano ciascuna un tocco particolare alla musica. Ma per loro niente eguaglia il palco, dove possono dare libero corso al loro temperamento festoso e alla gioia di suonare.
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