Dietro all’avventura fantascientifica, infatti, si nasconde la più classica delle storie: un figlio e un padre che hanno bisogno di comunicare l’uno con l’altro senza sapere come fare. Cypher è un generale spesso lontano da casa e non solo fisicamente; Kitai è un ragazzo cresciuto nel mito del padre, schiacciato dalla responsabilità del proprio nome e di una tragedia familiare vissuta da bambino, che ha acuito ancora la distanza dal padre. L’occasione per conquistarsi le attenzioni del padre e dimostrargli il proprio valore, superando il suo trauma infantile, gliela offre proprio Cypher quando decide di portarlo con lui nella sua ultima missione. Una tempesta di asteroidi, però, costringe l’astronave ad atterrare sulla Terra, in quarantena e disabitato dagli uomini da circa un migliaio di anni. Gli unici due sopravvissuti, prevedibilmente, sono solo gli Raige/Smith. Kitai è l’unico “operativo” dei due, che non riescono davvero a parlarsi in un linguaggio diverso da quello militare: è soprattutto colpa di Cypher, che concepisce il suo ruolo come quello di mero addestratore, superiore, e non di guida paterna. Kitai lo sa, cerca di avvicinarlo, ma l’unico modo per riuscirci e dimostrare al padre qualcosa che lui non può prevedere o disciplinare: il suo talento incosciente. Peccato che in quello stesso momento vomiti tutto quello che si è tenuto dentro per anni, dal trauma infantile fino a quel momento: evento emblema di tante altre piccole imperfezioni della sceneggiatura, molto solida ma troppo meccanica. Non mancano indizi seminati prima e puntualmente raccolti dopo, ma manca la sorpresa del modo in cui questo succede, o sarebbe potuto succedere.
Un piacere per gli occhi che in alcuni momenti raggiunge una tensione che Shyamalan sa orchestrare a dovere, gestendo quello che c’è nel campo visivo e soprattutto quello che non c’è; rimane però un racconto di formazione edulcorato, e per questo non troppo efficace.
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Paolo Ottomano