Le aggregazioni comunali sono quindi da ritenersi opportune, quando portano alla razionalizzazione di eventuali sprechi, a una migliore gestione del piano urbanistico e territoriale, alle economie di scala e quindi all’estensione dei servizi pubblici. Qualora invece il processo fusionistico ambisca ad arrivare a un Ticino di una manciata di comuni (come paventato da Manuele Bertoli, allora presidente del PS) significherebbe perdere completamente di vista la funzione stessa dell’ente locale, cioè la prossimità col cittadino. Oltre a ciò significherebbe sostanzialmente togliere potere alla borghesia periferica per rafforzare la grande borghesia urbana, il che non si può proprio definire un obiettivo di una seria politica di sinistra. Inutile infatti ricordare che la suddivisione in macro-regioni è comunque un’impostazione in atto un po’ in tutta l’Unione Europea e non è certo ostacolata dal grande capitale multinazionale.
Insomma occorre analizzare i progetti aggregativi caso per caso, concentrandosi sull’analisi politica vera e propria per evitare di finire nel mero campanilismo (e nel galoppinaggio) d’altri tempi, così come – sull’altro versante – bisogna rifiutare un calcolo unicamente economicista per accentrare maggiormente il capitale, senza prestare attenzione alla vivibilità della popolazione.