Riporto uno scambio di battute che ho letto qualche giorno fa sulla pagina di un social network, così mi risparmio e vi risparmio una premessa che sarebbe stata lunga e noiosa.Uno diceva: «Questo governo, che in teoria è composto da persone che non aspirano a future elezioni e in pratica non ha temuto di mettersi contro sindacati, professionisti, Confindustria e disoccupati, è pronto a fare un ricorso internazionale su una legge non sua, solo perché glielo chiedono rappresentanti di una piccola monarchia assoluta, per di più in preda a complicate e devastanti lotte interne. Non ha alcun senso»Senza averne colto l’ironia, un altro rispondeva: «Il rettore dell’Università Cattolica ai Beni Culturali, un docente della stessa Università ai Rapporti col Parlamento, il presidente di un movimento ecclesiale alla Salute, il leader di un movimento ecclesiale alla Cooperazione, un relatore al Convegno di Todi allo Sviluppo, alla Giustizia l’ex avvocato dello Ior. Detta tra noi, il ricorso ha perfettamente senso»Pur se in ellissi, mi pare qui sia colto il dato in comune – se ve n’è solo uno – tra il governo Monti e tutti quelli precedenti: gli interessi della Cei sono intoccabili, sempre, comunque. Sull’Imu s’era voluto vedere un momento di rottura col passato, ma i fatti si sono incaricati di dimostrare che si trattava di chiacchiere: fanno fatica a diventare operative le annunciate riduzioni degli sgravi fiscali di cui il clero ha sempre goduto e, quando lo saranno sulla carta, rimarranno sempre ampi i margini per continuare a goderne, mentre tutti gli altri privilegi rimangono.Tra questi quell’enorme flusso di denaro che dalle casse dello Stato finisce ogni anno nella ragnatela delle scuole private cattoliche. Il loro numero va diminuendo (sono 7.000, la metà rispetto a 25 anni fa), ma il denaro che ricevono aumenta (manca poco, tutto compreso, per toccare gli 850 milioni di euro). Con una Costituzione che ne garantisce l’esistenza, ma specificando a chiare lettere che non debbano comportare oneri per lo Stato, assistiamo da due decenni al drenaggio delle risorse pubbliche dalla scuola di tutti alla scuola dei preti, rassegnati al fatto che così debba essereDue giorni fa, su L’Osservatore Romano, notizia di come si affronta la questione agli antipodi: «Il Governo dello Stato del New South Wales, in Australia, ha in programma di tagliare milioni di dollari alle scuole cattoliche. Una decisione che è stata definita come una minaccia senza precedenti a un intero sistema educativo. Senza alcuna consultazione, i tagli previsti dal Governo comporteranno un duro colpo per i genitori, molti dei quali dipendono da queste scuole a basso costo»Superfluo dire che definirla la«minaccia» è il direttore dell’Ufficio per l’istruzione cattolica dell’arcidiocesi di Sydney, che per «intero sistema educativo» non deve intendersi la scuola australiana ma la rete di scuole private in mano ai preti in Australia, che il «basso costo» di queste scuole è la somma della retta pagata dai genitori cui si aggiunge il finanziamento pubblico. Scuole pagate due volte, per erogare un servizio che organismi internazionali giudicano di qualità inferiore a quello assicurato dalla scuola pubblica, ormai da anni.
Riporto uno scambio di battute che ho letto qualche giorno fa sulla pagina di un social network, così mi risparmio e vi risparmio una premessa che sarebbe stata lunga e noiosa.Uno diceva: «Questo governo, che in teoria è composto da persone che non aspirano a future elezioni e in pratica non ha temuto di mettersi contro sindacati, professionisti, Confindustria e disoccupati, è pronto a fare un ricorso internazionale su una legge non sua, solo perché glielo chiedono rappresentanti di una piccola monarchia assoluta, per di più in preda a complicate e devastanti lotte interne. Non ha alcun senso»Senza averne colto l’ironia, un altro rispondeva: «Il rettore dell’Università Cattolica ai Beni Culturali, un docente della stessa Università ai Rapporti col Parlamento, il presidente di un movimento ecclesiale alla Salute, il leader di un movimento ecclesiale alla Cooperazione, un relatore al Convegno di Todi allo Sviluppo, alla Giustizia l’ex avvocato dello Ior. Detta tra noi, il ricorso ha perfettamente senso»Pur se in ellissi, mi pare qui sia colto il dato in comune – se ve n’è solo uno – tra il governo Monti e tutti quelli precedenti: gli interessi della Cei sono intoccabili, sempre, comunque. Sull’Imu s’era voluto vedere un momento di rottura col passato, ma i fatti si sono incaricati di dimostrare che si trattava di chiacchiere: fanno fatica a diventare operative le annunciate riduzioni degli sgravi fiscali di cui il clero ha sempre goduto e, quando lo saranno sulla carta, rimarranno sempre ampi i margini per continuare a goderne, mentre tutti gli altri privilegi rimangono.Tra questi quell’enorme flusso di denaro che dalle casse dello Stato finisce ogni anno nella ragnatela delle scuole private cattoliche. Il loro numero va diminuendo (sono 7.000, la metà rispetto a 25 anni fa), ma il denaro che ricevono aumenta (manca poco, tutto compreso, per toccare gli 850 milioni di euro). Con una Costituzione che ne garantisce l’esistenza, ma specificando a chiare lettere che non debbano comportare oneri per lo Stato, assistiamo da due decenni al drenaggio delle risorse pubbliche dalla scuola di tutti alla scuola dei preti, rassegnati al fatto che così debba essereDue giorni fa, su L’Osservatore Romano, notizia di come si affronta la questione agli antipodi: «Il Governo dello Stato del New South Wales, in Australia, ha in programma di tagliare milioni di dollari alle scuole cattoliche. Una decisione che è stata definita come una minaccia senza precedenti a un intero sistema educativo. Senza alcuna consultazione, i tagli previsti dal Governo comporteranno un duro colpo per i genitori, molti dei quali dipendono da queste scuole a basso costo»Superfluo dire che definirla la«minaccia» è il direttore dell’Ufficio per l’istruzione cattolica dell’arcidiocesi di Sydney, che per «intero sistema educativo» non deve intendersi la scuola australiana ma la rete di scuole private in mano ai preti in Australia, che il «basso costo» di queste scuole è la somma della retta pagata dai genitori cui si aggiunge il finanziamento pubblico. Scuole pagate due volte, per erogare un servizio che organismi internazionali giudicano di qualità inferiore a quello assicurato dalla scuola pubblica, ormai da anni.
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