Mi rivolgo allora ad Hannah Arendt, una donna che non solo è stata una grande pensatrice, ma che soprattutto ha vissuto sulla sua pelle, l'angosciante esperienza di essere considerata "diversa" e che tante volte per avere salva la vita, ha dovuto fuggire, ricominciare daccapo.
"Agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l'unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano, mentre le loro identità fisiche appaiono senza alcuna attività da parte loro nella forma unica del corpo e nel suono della voce.
Questo rivelarsi del "chi" qualcuno in contrasto con il "che cosa" - le sue qualità e capacità, i suoi talenti, i suoi difetti, che può esporre o tenere nascosti - è implicito in qualunque cosa egli dica o faccia.
Si può nascondere "chi si è" solo nel completo silenzio e nella perfetta passività, ma la rivelazione dell'identità quasi mai è realizzata da un proposito intenzionale, come se si possedesse questo "chi" e si potesse disporne allo stesso modo in cui si possiedono le sue qualità e si può disporne.
Al contrario è più che probabile che il "chi", che appare in modo così chiaro e inconfondibile agli occhi degli altri, rimanga nascosto alla persona stessa, come il daimōn della religione greca che accompagna ogni uomo per tutta la sua vita, sempre presente dietro le sue spalle e quindi visibile a quelli con cui egli ha dei rapporti."
(Hannah Arendt, Vita Activa - La condizione umana, Bompiani, Bergamo 2009)
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