Torri Gemelle, kamikaze carichi di esplosivo al plastico che dilaniano donne e bambini nei mercati, immani sofferenze inflitte a esseri che vorrebbero avere indietro l’umanità che la malattia gli ha levato giorno dopo giorno. Una costante della Storia. Una volta si facevano le crociate in nome di Dio, si bruciavano gli scienziati, si affogavano le streghe e all’occorrenza si ammazzavano anche i papi a cui tutto questo sembrava molto poco caritatevole. Per queste e tante altre ragioni bisogna rendere merito ad Alejandro Amenàbar, regista che nella sua carriera non ha davvero mai cercato di vincere facile e che, dopo il dramma umano raccontato nell’ottimo “Mare dentro”, ha preso il coraggio a due mani imbarcandosi in un kolossal filosofico che molti avrebbero considerato un suicidio produttivo.
“Agora” racconta la storia di Ipazia, filosofa, matematica e scienziata alessandrina del IV secolo, unica donna che ebbe l’onore di dirigere la scuola d’Alessandria, massacrata dai cristiani che la vedevano come una minaccia alla loro egemonia. Interpretata da una straordinaria Rachel Weisz, Ipazia è il simbolo della cecità della fede rispetto alla ragione, uccisa perché faceva paura, proprio come oggi si cerca di tappare la bocca a chi vuole essere una sensata voce di dissenso costruttivo e Amenàbar ci presenta la sua parabola ricostruendo la polis di Alessandria con grande dispendio scenografico, sfoggiando il suo indubbio talento visivo con movimenti di macchina e inquadrature ardite, vivacizzando un racconto che ha comunque la sua forza nelle idee e nella tremendamente non violenta mazzata che oggi un’opera simile infligge all’anacronismo teologico della chiesa di Roma.
TRAMA Alessandria d’Egitto, 391 d.C., la citta è in tumulto, un gruppo fondamentalista convertitosi al Cristianesimo, porta scompiglio tra la popolazione, capeggiato dal violento e ben poco cristiano Cirillo, che manipola ed utilizza come un’arma le sacre scritture. Lo scontro tra i proseliti di Cirillo e i cittadini di religione ebraica miete quotidianamente vittime da entrambe le parti, al governo il Prefetto Oreste che convertitosi al Cristianesimo cerca di controllare la situazione rendendosi ben presto conto di essere seduto su una polveriera pronta ad esplodere. Lo scontro bagnerà di sangue le strade, mentre la brillante e determinata filosofa ed insegnante Ipazia cerca di rappresentare il libero pensiero scientifico e sviluppa una teoria alternativa al dominante pensiero Tolemaico. Le sue idee e il suo rifiuto ad una forzosa conversione, nonchè il suo rapporto con il Prefetto Oreste avranno un prezzo.
ALESSANDRIA D'EGITTO Questa città, dove si incontrano le civiltà dominanti dell’epoca, è un crocevia di cultura, religione, commercio e, nel periodo preso in considerazione, si trova ad essere al centro di un avvenimento epocale: la religione Pagana non ha saputo rinnovarsi ed è giunta alla fine, così come l’Impero Romano, mentre prende sempre più corpo e potere la nuova religione, quella Cristiana, in un momento dove l’asse del controllo militare e politico centrale vacilla. Il IV secolo d.C. infatti per molti storiografi coincide con l’inizio del Medioevo, sia da un punto di vista sociale che oscurantista. A questo principio si rifà la morale del film, che condanna non tanto il Cristianesimo in quanto tale ma il fondamentalismo religioso e il fanatismo in tutte le sue espressioni. La dicotomia si esprime tra la mentalità scientifico-filosofica di Ipazia, che cerca la messa in discussione e la confutazione delle sue teorie nella ricerca della verità, e la totale e cieca obbedienza dell’approccio religioso all’autenticità delle parole dei vescovi e dell’interpretazione delle Scritture.
I sapienti e gli scienziati del tempo osservavano il cielo e le stelle, che in un gioco di rimando di Alejandro Amenábar restituiscono loro lo sguardo, con un punto di vista umano ed emotivo che fa percepire l’amore e l’emozione di contemplare la volta celeste e i misteri dell’uomo e del cosmo. La centralità della figura di Ipazia simboleggia l’alto livello della civiltà che sta per terminare, sia da un punto di vista sociale (l’emancipazione femminile ne è un segno evidente) che da un punto di vista scientifico e filosofico, visto che le teorie della scienziata stanno per arrivare a delle conclusioni che avrebbero anticipato di 1200 anni il corso della storia (in realtà questa è solo una supposizione, visto che tutti i suoi lavori scientifici sono andati perduti).
La regia e le inquadrature sono concepite per dare l’impressione quasi di un servizio di cronaca da un altro tempo, con al centro la figura della filosofa che irradia luce come il sole ai suoi pianeti, a lei tanto caro, e come il Faro di Alessandria, una delle sette meraviglie del mondo antico.
Lo scenario rigorosamente particolareggiato e curato di un Alessandria d’Egitto vista come una New York dei nostri tempi, un melting pot di culture e razze, ci restituisce una sensazione reale e surreale al contempo: quella di assistere in diretta a degli eventi accaduti 1600 anni fa.
Buona parte del budget del film infatti è stata investita nelle scenografie e negli effetti speciali, basti pensare che la volta celeste rappresentata è quella che realmente appariva nel IV secolo, ricreata al computer sotto la supervisione di astronomi specializzati. Ad essere pignoli va constatato che la stessa cura storiografica non è stata applicata ai costumi dei soldati romani, vestiti con loriche, spade e scudi sbagliati, come nella migliore tradizione cinematografica… Per quanto riguarda gli interpreti va sottolineata la magnifica interpretazione della Weisz (Ipazia), attorno alla quale gira tutta la storia, e di Max Minghella (Davo, lo schiavo). La regia cerca un equilibrio tra la storia reale e quella romanzata, tentando di provocare una rabbia e un senso di sgomento di fronte ai fatti rappresentati, che un finale addolcito rispetto alla realtà non stiepidisce, con le considerazioni finali che rimandano al delitto non solo contro la Persona ma contro la Storia.
IL SAPERE E' DONNA Ipazia crede nel pensiero tanto da scegliere la morte piuttosto che rinnegare la ragione. Il raziocinio, dunque, trova il suo emblema nel femminile e non nel maschile. Questo è il primo ribaltamento di stereotipi tra i tanti a cui assistiamo nella sceneggiatura di Alejandro Amenábar. L’emotività e l’amore sentimentale non si fanno strada nel cuore della protagonista, in lei prevale la sete di conoscenza, il culto dello studio e della scienza. Vestale del sapere e della logica, Ipazia ovviamente non può cedere ai richiami del paganesimo e del cristianesimo, come fanno l’allievo Oreste e lo schiavo Davo, lei è l’unica a difendere il diritto all’ateismo.
Non è intenzione di Alejandro Amenábar fornire un ritratto storico filologico dell’epoca; la sua pellicola non si propone di dissipare ogni mistero sul periodo in questione e su Alessandria d’Egitto. Pare, piuttosto, che il regista cileno semplicemente tenti di evidenziare le contraddizioni taciute o mai rilevate.
Ipazia diviene la metafora dell’intelletto libero da costrizioni e da preconcetti, ma la protagonista è anche donna del suo tempo e ha ben chiara la distinzione sociale.
Se Agorà cade talvolta nei tic del film di genere, seppure modernizzandoli, è innegabile il proposito di collocare la vicenda in una cornice simbolica e realistica al contempo. È in questo senso che vanno letti i movimenti di macchina che dal pianeta Terra sospeso nell’infinito si spostano sulla città di Alessadria, inquadrata dall’alto fino ai primi piani della protagonista, mentre cerca di individuare il meccanismo della rotazione terrestre.
Agorà è un inno alla sovranità del pensiero che pure nella morte trionfa sull’oscurantismo e sull’ipocrisia.
In conclusione, “Agorà” non è un film contro il cristianesimo ma è un duro atto d’accusa contro tutti tutti i fondamentalismi, i fanatismi religiosi e gli estremismi... Quello che si evince dalla pellicola a prescindere da Paganesimo, Cristianesimo, Ebraismo e Filosofia è che il problema fondamentale non è certo di religione o credo, ma l’essere umano perennemente in conflitto con il suo lato oscuro e bestiale, sempre più difficile da controllare, ieri come oggi.
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