Agosto 1968, l’invasione sovietica di Praga

Creato il 22 agosto 2012 da Apregesta7 @regesta_ap

Di Massimo Canario

Nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 i carri armati sovietici entrano nella capitale cecoslovacca e mettono fine alla Primavera di Praga. Dodici anni dopo la sanguinosa repressione in Ungheria le truppe del patto di Varsavia reprimevano il generoso tentativo compiuto da Alexander Dubceck di riformare dall’interno il regime comunista. La notizia ebbe un’eco in tutto il mondo: sulla stampa, sulle televisioni e anche nei cinegiornali si analizzò con attenzione quanto era accaduto.

Il vento di rinnovamento che nei mesi precedenti aveva soffiato in Europa e negli Stati Uniti, aveva influenzato il mondo intellettuale, la società civile e i quadri del partito. La Cecoslovacchia era un paese avanzato economicamente e culturalmente, la classe operaia veniva da una tradizione comunista e socialdemocratica: le condizioni ideali per l’avvio di un processo di rinnovamento democratico delle società socialiste.

Il Socialismo dal volto umano di Dubcek prevedeva il riconoscimento delle libertà politiche, culturali e sindacali, la separazione fra partito e governo, la parità fra le diverse componenti etniche del paese. La classe operaia fu coinvolta nel processo di democratizzazione attraverso la creazione di nuovi strumenti di democrazia di base.

La Primavera cecoslovacca poteva contare sull’appoggio del più forte Partito Comunista d’occidente, quello italiano, come espresso chiaramente da Pietro Ingrao nel suo intervento alla Camera dei deputati nella seduta del 29 agosto del 1968 su Comunicazioni del governo: Sugli avvenimenti in Cecoslovacchia: “Non solo non abbiamo taciuto, ma abbiamo agito e cercato di pesare; e di fronte all’intervento militare dei cinque paesi del patto di Varsavia abbiamo espresso il nostro grave dissenso e la nostra riprovazione, non solo perché dinanzi a quegli eventi ogni forza politica era tenuta a dimostrare chiarezza di giudizio e assunzione di responsabilità, ma perché abbiamo sperato che la nostra voce, unita a quella di altri partiti comunisti, potesse recare un aiuto e impedire il peggio” e continuava: “Esprimiamo qui la nostra solidarietà ad essi e insieme l’augurio, la speranza, l’esigenza che rapidamente l’attuale pesante situazione possa essere totalmente superata e si giunga al ritiro delle truppe dei cinque paesi e la Cecoslovacchia possa continuare il suo lavoro, il suo impegno per il socialismo, per il progresso, per la pace”.

Il partito cecoslovacco inoltre mai, in nessuna posizione ufficiale, aveva espresso la volontà di rompere l’unità del Patto di Varsavia. L’invasione fu quindi accolta con sorpresa da una popolazione che mai, in un paese del blocco comunista, era stata partecipe tanto attiva di un tentativo di riformare dall’interno e dal basso un sistema ormai totalmente sclerotizzato e che di socialista non aveva più nulla da molto tempo. Restano negli occhi le immagini della popolazione che circonda i carrarmati sovietici e tenta di dialogare con i soldati che lo guidano.

Dopo l’invasione seguì un periodo di “normalizzazione”. A Dubcek subentrò Gustav Husak che in breve tempo annullò tutte le riforme del suo predecessore. Il partito comunista organizzò un ferreo controllo sulla società anche se non mancarono casi di protesta, il più eclatante dei quali fu il suicidio del giovane studente Jan Palach (qui ricordato in un servizio del cinegiornale Sette G conservato presso l’archivio Luce)  che il 19 gennaio 1969 si diede fuoco in piazza San Venceslao, al centro di Praga, ai piedi della scalinata del Museo Nazionale. Morì dopo tre giorni di agonia e al suo funerale presero parte più di seicentomila persone provenienti da tutto il paese.

Molti cecoslovacchi fuggirono all’estero. Tra i molti anche Jiri Pelikan. Giornalista, fu deputato dal 1964 al 1969; divenne direttore della televisione cecoslovacca, incarico dal quale fu allontanato nel 1968 quando venne nominato consigliere d’ambasciata a Roma, dove chiese e ottenne asilo politico in seguito all’invasione del suo paese. Da allora ha vissuto nel nostro paese, dove è stato anche europarlamentare nelle file del Partito Socialista Italiano dal 1979 al 1989. Presso la Camera è conservato il suo archivio: acquisito nel 2000 è composto da materiale in varie lingue e da diversi volume ed è ora consultabile online. E’ possibile vedere un filmato su come si arrivò al tentativo riformista di Dubcek e sono scaricabili diversi tre volumi dedicati alla Primavera di Praga: La Primavera di Praga, Vol. I. Documenti e memorie, Roma, 2008, pp. 231; La Primavera di Praga, Vol. II. Il dibattito parlamentare (Resoconti delle sedute della Camera dei deputati 29 – 30 agosto 1968), Roma, 2008, pp. 215; La Primavera di Praga, Vol. III. Un itinerario nella stampa italiana ed europea dell’epoca, Roma, 2008, pp. 419.

La stagnazione brezneviana, allora agli inizi, si trascinerà stancamente per un ventennio, tra crisi economica e repressione militare: l’invasione dell’Afghanistan nel dicembre del 1979 e poi la repressione di Solidarnosc in Polonia nel 1981, per mano del generale Wojciech Jaruzelski, furono gli ultimi episodi di un potere ormai allo sbando e irrimediabilmente irriformabile, come dovette amaramente constatare Michail Gorbačëv e come risultò chiaro tra la fine del 1989 e il 1990 quando, a partire dalla caduta del muro di Berlino, si sciolse come neve al sole.

Alexander Dubcek ebbe la sua rivincita: fu riabilitato ed eletto presidente del Parlamento federale cecoslovacco. Morì poco dopo in seguito ad un incidente stradale.


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