Agota Kristof (Csikvánd, 30 ottobre 1935 – Neuchatel, 27 Luglio 2011)
Creato il 27 luglio 2011 da Kris
@zinfok
"Ieri sono andato sulla riva del lago. Adesso l'acqua è molto nera, molto cupa. Le sere trascinano tra le onde i giorni dimenticati. Se ne vanno verso l'orizzonte come se navigassero in mare. Ma il mare è lontano da qui. Tutto è così lontano.
Credo che presto sarò guarito. Qualcosa si romperà in me o in qualche parte dello spazio. Partirò verso altezze sconosciute. Sulla terra non c'è che la mietitura, l'attesa insopportabile e l'inesprimibile silenzio."
[Agota Kristof - Ieri]
Riporto di seguito un'intervista rilasciata dall'autrice all'Unità:
Minuscola e leggera, con un passo claudicante e un paio
di grossi occhiali a fare da schermo ai due occhi quasi sempre socchiusi,
sorpresa dal tanto pubblico che cominciavo ad arrivare per il reading in campo
S. Angelo per l'edizione numero cinque di Fondamenta, Agota Kristof si lascia
avvicinare per le interviste che man mano diventano una sorpresa: ben presto
infatti la taciturna scrittrice di culto, nata in Ungheria nel 1935 e
trasferitasi in Svizzera a 21 anni dopo i fatti in Ungheria, parla di tutto,
confessa che non scriverà mai più nulla di così interessante come i tre libri
della Trilogia della città di K, non fa sconti alla versione filmica del
suo Ieri (firmata da Silvio Soldini col titolo Brucio nel vento):
“Troppo melensa e poi l'attrice non era in grado di dare corpo al personaggio di
Line”, confessa di leggere pochissimo e di guardare molto la televisione: “prima
amavo molto il cinema ma ora ho paura di uscire da sola la sera”.
Timori,
crediamo, non d'ordine pubblico: a Neuchatel riesce difficile immaginarsi una
delinquenza comune che rende le strade insicure le serate, come i suoi
personaggi la Kristof ha altre antenne per sentire chissà quali, ben diverse
paure.
Come
ha cominciato a scrivere e cosa ha significato per lei il passaggio dalla sua
lingua madre al francese?
Un mio
personaggio, in Ieri dice che è diventando assolutamente niente che si può
diventare scrittori. Devo dire che quest'affermazione vale anche per me. Fin
dall'infanzia ho amato leggere e scrivere. Tutte le altre cose non avevano
nessuna importanza, ma non volevo fare degli studi letterari, diventare un
professore. No, non amavo quella strada: ho preferito andare a lavorare in una
fabbrica. Lì potevo concentrarmi sulla scrittura, sui miei pensieri, vicino alla
macchina che io usavo in fabbrica c'era un foglio su cui scrivevo i miei versi,
ed era la cadenza delle macchine a darmi il ritmo di quella poesia. Allora
scrivevo in ungherese. Poi ho scritto pochissimo per molti anni: avevo
abbandonato il mio paese e stavo lasciando anche la mia lingua per il francese
che non conoscevo bene e così mi esercitavo con dialoghi teatrali. Oggi quelle
mie prime opere in francese mi sembrano quasi tutte orribili. Non tutte,
qualcuna buona c'è. Erano gli anni Settanta.
E i
tre libri della “Trilogia” come nascono?
Dopo le
pièces teatrali cominciai a scrivere delle piccole novelle, volevo
parlare della mia infanzia durante la guerra, vissuta con mio fratello maggiore.
Scrivevo sempre delle scene corte, una o due pagine, poi queste scene, con il
loro titolo, diventavano capitoli del mio romanzo. Quindi cambiai il mio nome e
quello di mio fratello e trasformai i personaggi in due maschi e poi in due
gemelli. Da quel momento non scrissi solo di cose da me vissute ma cominciai a
immaginare altro. Lasciai l'autobiografia e riorganizzai quei capitoli per uno
struttura romanzesca.
Come
ha raggiunto questo stile essenziale, duro, secco?
All'inizio non era per niente così. Anche quando
scrivevo in ungherese ero melliflua, romantica, troppo letteraria. Le mie prime
cose in francese, quelle per il teatro, erano scritte in una lingua normale,
quotidiana. Solo quando ho cominciato a scrivere i capitoli della prima parte
della Trilogia ho cercato fortemente un nuovo linguaggio: dovevo rendere
lo stile di un libro scritto da dei bambini (i due gemelli n.d.r.), anche se un
po' speciali, molto intelligenti e autodidatti, che amano i dizionari
com'eravamo io e mio fratello. Per la verità chi mi ha messo definitivamente
sulla buona strada è stato mio figlio quando aveva dieci, dodici anni, io
l'osservavo molto scrivere, studiavo il modo e il contenuto, e cercavo di
apprendere quello stile, quel punto di vista. Il mio stile è figlio di mio
figlio.
Lei
sembra indicarci che solo attraverso il dolore possiamo avere un'opportunità di
comprendere gli altri, il mondo...
Questo è
vero, ma lo è solo per me. E' il mio modo di mettermi in contatto col mondo, ma
non posso dire che questo sia valido per le altre persone.
Oggi
come vive la separazione col suo paese, con quella lingua? Legge letteratura
ungherese? Torna spesso in Ungheria?
Io non
volevo lasciare il mio paese. Lo rimprovero sempre al mio ex marito: era lui che
aveva paura dopo i fatti del '56, io non avevo nulla da temere, lavoravo in
fabbrica e amavo scrivere. All'inizio non capivo cosa c'entravano per me la
Svizzera, la lingua francese. E' stata una separazione difficile, soprattutto
quella della mia lingua, ma non potevo continuare, come hanno fatto alcuni altri
scrittori dell'Est. A scrivere in una lingua che non parlavo più
quotidianamente. Non avrei avuto neppure lettori. E così scrivere in francese è
stata una necessità oltre che una sfida. Mi dicevo: “come può accadere questo,
io che sto scrivendo in una lingua che non è la mia”. Era un po' un miracolo.
Oggi mi capita di ritornare in Ungheria, ho pure il doppio passaporto, ma per
brevi periodi, io vivo in Svizzera vicino ai miei figli. Tra gli scrittori
ungheresi conosco bene e personalmente Imre Kertész, sono stata felice per il
suo Nobel l'anno scorso. Sa, è stato per anni povero e senza
successo.
Intervista di Michele De Mieri – L'UNITA' –
05/10/2003
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