Sul “Sole 24 Ore” di oggi è apparso un articolo di Fabrizio Barca intitolato “La nuova agricoltura dell’Italia” che merita di essere segnalato per una molteplicità di motivi. Il primo riguarda l’attenzione crescente che settori della cultura economica vanno ultimamente dedicando al settore primario. L’economista ammette che egli stesso ha incominciato solo di recente a rivalutare il ruolo dell’agricoltura nello sviluppo del Paese. Fino a ieri era convinto, come altri studiosi della sua disciplina, che costituisse una legge naturale il contributo cedente dell’agricoltura alla formazione della produzione e dell’occupazione e non già l’esito di scelte intenzionali e reversibili. A convincerlo della necessità di questa revisione autocriticaè stato il lavoro di approfondimento - negli ultimi due anni - del tema delle aree interne. Il secondo motivo che mi spinge a segnalare l’articolo è il giudizio positivo che Barca esprime riguardo al Piano strategicoper l’innovazione e la ricerca nel settore agricolo, alimentare e forestale presentato, nei giorni scorsi, dal ministro Maurizio Martina. In realtà, l’ex ministro della Coesione territoriale precisa di non essere esperto di questo comparto “e non lo si diviene solo per osmosi”. Ma ritiene di dover cogliere la novità in alcuni passaggi del documento: quello dove si suggeriscono strumenti di policy che ne rafforzino l’integrazione sul campo o che promuovano la ricerca “a rete”: nella genomica nutrizionale, per produrre alimenti a misura di esigenze sempre più specifiche; nelle biotecnologie, per adattare il prodotto al clima; nelle nanotecnologie, per garantire qualità e tracciabilità degli alimenti. Il documento costituisce, senza dubbio, uno strumento per favorire maggiori sinergie tra la politica nazionale della ricerca e quella europea nel momento di avvio della programmazione comunitaria dei fondi strutturali. Ma non convince la visione riduttiva con cui si affronta il paradigma dell’innovazione sociale, individuandola come una specifica tipologia di innovazione e relegandola all’ambito dell’agricoltura familiare e di comunità. Nel Piano si tende a distinguere l’innovazione incrementale (legata soprattutto agli aspetti ambientali e alla diversificazione) per aziende di medio-grandi dimensioni; l’innovazione radicale, per aziende di piccole dimensioni (di nicchia e diversificate); l’innovazione sociale, per aziende a carattere familiare mediante la promozione di reti ibride di supporto amministrazioni-società civile-imprese, utili a generare un clima di sostegno reciproco che favorisca l’azione collettiva. È una suddivisione assunta astrattamente e che distorce il rapporto tra innovazione e ricerca in quanto – così facendo - l’innovazione sociale (cioè il cambiamento che investe sia le relazioni tra i soggetti interessati ad innovare, sia il contesto in cui l’innovazione si produce) perde la sua valenza sistemica e, dunque, la sua capacità di agire in profondità e in modo diffuso nel sistema agricolo. A questa osservazione si collega un rilievo critico che vorrei muovere all’articolo di Barca. E qui risiede il terzo ed ultimo motivo che induce a segnalarlo. Lo studioso si augura che il documento del Mipaaf solleciti “un dibattito vivace capace di coinvolgere centinaia di migliaia di lavoratori e di imprenditori dell’agroalimentare, i cittadini e la cultura italiana; e che il confronto si estenda alla necessità di prevenire nuove esasperate forme di privatizzazione della conoscenza; una strada che colpisce in modo particolare il modello di innovazione adattiva (delle conoscenze accumulate altrove) tipico del nostro Paese”. A quale modello si riferisca Barca è lui stesso a precisarlo quando considera una buona base di partenza della neopresidenza Juncker le pregiudiziali su “sicurezza e salute” sull’Accordo di libero scambio Ue-Usa.
Stupisce che uno studioso di politiche dello sviluppo della levatura di Barca ceda su questioni fondamentali – quali sono le politiche dell’innovazione e della ricerca – in un riduzionismo economicistico. Finora l’alimentazione (nell’accezione sistemica della bioeconomia, della sicurezza e dei cambiamenti climatici) è stata individuata come materia attinente alla sfera delle relazioni internazionali in ambiti appropriati, quali Onu e Fao, per le sue valenze squisitamente politiche ed etiche. Le politiche della ricerca e dell’innovazione per il settore agroalimentare sono da sempre considerate in un quadro condiviso di regole e di collaborazioni tra i diversi Paesi del mondo, anche quando attengono a modelli produttivi specifici e a peculiari condizioni socio-ambientali, senza mai riferirle a ragioni di competitività dei sistemi economici nazionali. Una loro derubricazione a fattori di competitività territoriale potrebbe - a mio modo di vedere - determinare una pericolosa deriva che metterebbe a repentaglio la stessa credibilità della nostra comunità scientifica a livello internazionale. E indurrebbe l’Unione europea a svolgere un’azione infruttuosa e del tutto velleitaria nelle sedi internazionali – bilaterali e multilaterali - di confronto sugli scambi commerciali.