Aharon Appelfeld, Il paradosso della vita

Creato il 11 marzo 2012 da Viadellebelledonne

Con il vostro permesso, signore e signori, non entrerò nel merito della definizione di paradosso. La lingua degli scrittori è quasi sempre concreta, lontana dall’astrazione. Vorrei invece condividere con voi alcuni paradossi della mia vita, e per farlo procederò in forma cronologica.

Sono nato nel 1932, un anno prima dell’avvento al potere di Hitler. I miei genitori erano ebrei assimilati, intrisi di lingua e cultura tedesca: per loro l’ebraismo era una specie di anacronismo, da cui tenersi a distanza. Quando avevo tre anni, i miei genitori fecero venire da Vienna una istitutrice, affinché le mie orecchie sentissero la corretta pronuncia della capitale. Gli ebrei assimilati erano sicuri che il regime di Hitler fosse passeggero e che nel giro di un anno o due sarebbe sparito. La filosofia e la musica tedesche, per non parlare della letteratura, in quanto massima espressione culturale dell’umanità, avrebbero sconfitto la volgarità e la violenza, l’espansionismo e la sete omicida. Sono nato in Bucovina, una delle province più rinomate dell’impero asburgico, per merito del suo capoluogo, Cernovitz.

A differenza delle metropoli, la provincia aveva conservato un certo candore, nutrito dalla certezza che la cultura abbia in sé la forza per salvare l’uomo persino dai demoni che si celano sotto spoglie umane. Nessuno poteva immaginare quello che stava per succedere.
Nel 1941 i tedeschi invasero la Bucovina: avevo otto anni e mezzo, ero figlio unico, ero già in grado di leggere i libri di Karl May e parlavo il tedesco senza fare errori e senza dar modo di capire a chi mi sentiva che venivo da una famiglia ebraica, e dalla provincia. Era chiaro che stavamo andando incontro a una tragedia imminente, eppure i miei genitori erano ancora sicuri che agli ebrei che parlavano tedesco non sarebbe stato fatto alcun male: ci avrebbero fatti uscire dal ghetto e liberati. Quel che è successo nei ghetti e nei campi è noto a tutti e non richiede certo alcuna delucidazione da parte mia. Mia madre venne assassinata e io venni separato da mio padre. Avevo nove anni. Quel tedesco che i miei genitori coltivavano con grande amore divenne tutt’a un tratto la lingua degli assassini. Tutto ciò avvenne poco prima della «soluzione finale» effettiva.

Scappai dal campo nei boschi e lì venni adottato da una banda di ladri ucraini. Non è stata la lingua tedesca a salvarmi in quella vita alla macchia, bensì l’ucraino che mi aveva insegnato la nostra domestica. Invece della esclusiva scuola privata che frequentavo un tempo, dovetti studiare alla scuola dei ladri. Loro parlavano poco: mugugnavano, brontolavano, picchiavano. Il mio aspetto non mi tradì: ero un bambino biondo ed eseguivo tutti gli ordini con ubbidienza assoluta. Imparai a parlare poco, a guardarmi intorno e ascoltare. Forse, con questo esercizio mi sono formato per diventare scrittore. Vivendo nei boschi, si acquisiscono delle caratteristiche proprie degli animali: udito fine, sguardo acuto, olfatto più sviluppato. La capacità di pensare si riduce. Nel bosco i sensi sono la tua guida.
Fu così che quel ragazzino vissuto sino ad allora in una casa agiata, circondato di libri e bei mobili, che andava con i suoi genitori ai concerti e a teatro e a camminare in mezzo alla natura, divenne una creatura dei boschi, sottomessa a una banda di ladri. Ancor oggi non riesco a capire come sia potuta avvenire in me una tale metamorfosi. C’è un vecchio adagio ebraico che dice «l’uomo è più forte del ferro», e ciò significa che l’uomo, seppur fatto di carne e sangue, è capace di affrontare sforzi incredibili, e sopravvivere. Difficile dire se questo detto vada inteso come un pregio o come un difetto.

La borghesia ebraica formava i suoi figli e figlie perché diventassero medici, avvocati, banchieri. Ma i nazisti misero al centro della mia vita il mio ebraismo «biologico». Della mia identità avevo sentito parlare pochissimo in casa, quando tutt’a un tratto fui costretto a passare per tutte le infuocate ordalie della colonia penale (come nell’omonimo racconto di Kafka): il ghetto, il campo, i boschi. Il sangue ebraico che scorreva nelle tue vene ti condannava all’umiliazione e alle torture: solo dopo tutto ciò arrivava la morte. Nel 1944 la zona del mio esilio venne liberata dall’Armata Rossa. La banda di ladri si disperse, ognuno se ne tornò alla propria famiglia, e io rimasi solo al mondo. Avevo dodici anni.

Ma il destino fu ancora una volta benevolo con me. L’Armata Rossa mi adottò come garzone di cucina, e per circa un anno rimasi con i soldati. La paura che mi aveva accompagnato nell’anno e mezzo precedente, la paura che i ladri scoprissero la mia vera identità e mi uccidessero o mi consegnassero ai tedeschi, finalmente se ne andò. Nell’Armata Rossa c’erano molti soldati e ufficiali ebrei. Il lavoro in cucina non era certo leggero, ma ero felice di poter avanzare insieme all’esercito vincitore, e di servire una minestra calda ai soldati.
Chi ha letto i libri di Isaac Babel s’è fatto un’idea di quel che era l’Armata Rossa. Ovviamente la realtà andava ben oltre l’immaginario dell’arte. Imparai ben presto a bere vodka, a fumare e bestemmiare: notte e giorno, fra i cavalli si udivano lunghe e colorite imprecazioni. Ma io ero contento di avere da mangiare, ero contento che nessuno mi spedisse in pericolose missioni, e che il mio essere ebreo non fosse di per sé una cosa pericolosa. Ho attraversato l’Europa, con l’Armata Rossa. Che cosa pensavo, in quel periodo? La mia impressione è che non pensassi affatto. La cucina occupava tutta la mia giornata.

Arrivato in Jugoslavia, era già il 1945, incontrai alcuni ragazzi ebrei e lasciai l’Armata Rossa. Insieme andammo a cercare un posto dove distribuissero cibo e vestiti. Fu così che giungemmo in Italia. Di sopravvissuti nei campi e alla clandestinità ce n’erano ovunque, tutti desiderosi di lasciare quell’Europa che li aveva feriti in modo tanto disumano – chi per l’America e chi per la Palestina. Capii ben presto che l’America non era poi così entusiasta di accogliere degli orfani, pertanto mi unii a quei profughi che si accingevano a immigrare in Palestina. Vi arrivai nel 1946. Anche qui mi trovai circondato di profughi, ciascuno che parlava nella sua lingua.

Fui accolto in una struttura agricola che formava i ragazzi profughi della mia età al lavoro dei campi, all’autodifesa e dove si insegnava loro la nuova lingua – l’ebraico. Il clima molto caldo e il nuovo corso della giornata non posso dire che mi rendessero felice, ma ero comunque contento di non essere alla mercé di nessuno, e di avere un po’ di tempo per me stesso. Non sapevo dove la vita mi avrebbe condotto. (…)

Ma intanto l’ebraico s’andava radicando in me, seppure forse non in profondità come la lingua materna. Leggevo molto e passo a passo «conquistai» la lingua. Mi affascinava soprattutto la Bibbia. Ogni giorno copiavo a mano un capitolo, e così acquisivo familiarità con la melodia della frase ebraica. (…)

A quel tempo pensavo già di diventare uno scrittore? Assolutamente no. Per quattro anni ho lavorato nei campi. La fatica fisica e l’aria aperta che hanno forgiato il mio corpo mi hanno anche sviluppato la mente? Ho dei dubbi. Non avevo appreso altro che qualche rudimento, e non credo che mi sarebbe bastato per alcunché.

Se lo scopo del paradosso è quello di accostare idee apparentemente in contraddizione e inconciliabili fra loro, allora la mia vita è tale. Dicono che l’arte dello scrivere non si realizzi se non nella propria lingua materna. Le eccezioni, come Conrad, Nabokov e Beckett, non fanno che confermare la regola. Per me, è stata la lingua biblica a redimermi, a farmi uscire dal mutismo e dal paradosso di due lingue, due patrie, due culture. La lingua biblica s’addiceva alle esperienze della mia vita: è una lingua minimalista, diretta, priva di manierismi, mai descrittiva, scarsissima di aggettivi. In una lingua come questa si può scrivere di una vita che rifiorisce dalla catastrofe, di durezza e assurdità: sono fortunato ad averla avuta in sorte. La lingua di mia madre, diventata quella degli assassini, non sarebbe mai potuta essere il mio strumento musicale.

A volte ho la sensazione che nella mia vita si siano concretizzati tutti i paradossi possibili. Non saprei dire se il fatto di vivere fuori dall’Europa mi abbia allontanato da questo continente, dalle sue lingue e culture. A differenza dei miei genitori, che erano teatro essi stessi di un conflitto perché ambivano a essere europei e soltanto europei, la mia vita, per fortuna, mi ha risparmiato questo dilemma. La lingua ebraica mi ha costruito spiritualmente come ebreo, eppure in virtù dell’universalismo della Bibbia sono rimasto un europeo. Quell’Europa in cui sono nati i miei avi e gli avi dei miei avi e sono nato io, vive e respira in tutti i miei scritti. Si può parlare di un happy end? Proprio no. In un’infanzia e una giovinezza come le mie, con il loro carico di paradossi, non c’è spazio per la felicità. A questo punto debbo confessare una cosa: nel profondo di me s’annidano il cinismo, l’indifferenza, il disprezzo per qualsivoglia fede. Ho visto troppo male nella mia vita, per poter tornare a credere nella semplicità e nel candore dell’uomo. Però, come per miracolo, l’eredità culturale dei miei genitori, il loro amore fiducioso nel progresso e nell’universalismo, i quattro anni di lavoro con la terra e gli altrettanti anni di studio della Bibbia, hanno conservato me e l’immagine di Dio che è in me.
(Traduzione di Elena Loewenthal)
Copyright: © Aharon Appelfeld 2010



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