“La vita non deve essere organica” scrive Ollivier Dyens in Metal and Flesh e la “realtà biologica” (così definita dal premio Nobel per la medicina François Jacob) oggi non trova più fondamento perché la cultura ha letteralmente detronizzato il biologico e le forme di vita appaiono filtrate e tradotte. I new media, le tecnologie e i progressi scientifici hanno contagiato il vivente e in questo quadro sociale/culturale esso non può più essere considerato un semplice elemento neutro e naturale, ma piuttosto il luogo in cui fattori esterni si proiettano e si intrecciano in esso.
L’ambiente esterno plasma e sconvolge l’organico facendo diventare il corpo un oggetto culturale. Dyens precisa però che le tecnologie non agiscono sul corpo come mere estensioni, tra loro e il corpo organico si instaurano dinamiche nuove in cui le cose si evolvono insieme agli esseri viventi e dalla loro unione nascono entità composte contemporaneamente sia da sostanze biologiche sia da materiali artificiali e meccanici.
A conferma di questo Dyens afferma che gli esseri viventi non sono soltanto il risultato della trasmissione dei geni, ma anche della rappresentazione culturale; da ciò viene riconfermata l’idea di un corpo che è manipolato e che deve costantemente adattarsi ai cambiamenti ambientali e sociali. Anche le riflessioni di Roberto Marchesini si possono collocare all’interno di questa cornice; nel suo testo Post-Human egli prende infatti in esame le intersezioni che avvengono tra il fattore tecnologico e l’umano. Marchesini arriva ad affermare che nella contemporaneità l’essere umano si approccia al suo corpo in modo completamente nuovo rispetto al passato, perché teso a incorporare nel suo organismo strumenti e apparati provenienti da contesti non umani. Con l’avvento delle tecnologie quindi la fisiologia dell’uomo ha subito un urto da cui è nato un corpo postorganico e in cui l’essere umano non è più costretto ad una staticità della forma, ma può inventare
Epizoo foto di Carles Rodriguez
il suo corpo sempre in maniera diversa, in cui la morfologia viene continuamente rimodellata e in questo gioco l’uomo assume le forme e l’essenza che vuole. E se si parla di gioco non può non entrare in causa l’arte, e chi si è occupato del rapporto tra corpo e tecnologie inserendo elementi che spaziano dal teatro, all’arte figurativa fino ad arrivare a quella computazionale è sicuramente lo spagnolo Marcel.Lì Antunez Roca.
Artista multimediale Marcel.Lì Antunez Roca inizia la sua carriera fondando nel 1979 il gruppo catalano Fura dels Baus, collettivo teatrale divenuto famoso per la loro poetica e pratica scenica. Nelle loro rappresentazioni, come ad esempio nella maxiperformance Accions, emerge un’estetica del corpo estremo in cui si possono rintracciare influenze industrial e un uso della scena che esce dai confini del palcoscenico, oltre che una forte commistione tra le arti. Nonostante la Fura dels Baus sia una realtà teatrale innovativa e radicale, Marcel.Lì Antunez Roca lascia il gruppo nel 1989, ed inizia un percorso indipendente. Negli anni Novanta la sua carica energetica e creatrice esplode in opere limite, non facilmente classificabili, in cui il teatro, la musica, il cinema e l’arte figurativa si trovano fuse: spettacoli privi di margini dentro il quale ci si scopre/riscopre sempre in carni e forme diverse.
La carne è la protagonista del suo primo periodo artistico e viene vista come l’accesso per ritornare alla dimensione atavica, per far risorgere le pulsioni e condurre lo sguardo in direzione del pre-umano e di quell’intimità che si snoda tra le trame del corpo. Questo però è solo un aspetto della carne perché nella società contemporanea, per quanto possa sembrare l’incontrario vista la continua ed insistente esposizione mediatica e sociale dei corpi, essa è associata all’osceno, al perturbante; la carne diventa quindi il sinonimo di natura vergognosa, un richiamo al dolore che bisogna rendere inudibile.
L’artista spagnolo invece va contro a questa “censura” della carnalità e in JOan l’hombre de Carne (1993) esprime tutta la potenza di questa sostanza. JOan l’hombre de Carne è prima di tutto una creatura onirica: compare infatti in sogno a Antunez Roca nel 1990 e, come a volte accade che la vita onirica influenzi e determini le scelte che si andranno poi a fare nella realtà, così non potendo sfuggire a questa immagine/incubo, Antunez decide di “darle vita” e di rendere concreta la sua allucinazione notturna.
JOan è una figura umana maschile a grandezza naturale, composta da poliestere e ricoperta totalmente da pelle di maiale, è munita di un sistema informatico che le permette di muoversi in base agli stimoli sonori degli spettatori, si può dunque definire una performance interattiva.
JOan l’hombre de Carne
Realizzata da un’équipe di tecnici, in questa struttura sono presenti un subsistema audioinformatico che capta, digitalizza e analizza il suono per poi inviare i segnali e gli ordini in un altro subsistema, ossia un computer dotato di un microfono, di una scheda digitale e di un’interfaccia midi. Il suono captato dal microfono è digitalizzato dal segnale di entrata, che manda all’interfaccia midi le risposte corrispondenti. Il subsistema elettromeccanico converte i dati midi in segnali elettrici che, attraverso i motori, azionano le articolazioni di Joan. La pelle invece per renderla più somigliante a quella umana ha subito un processo di disseccamento e sgrassamento.
Con la creazione di JOan, scriveva Teresa Macrì in Il Corpo postorganico, è nato un nuovo Golem, in cui organico e sintetico risiedono nella stessa carne. Secondo la studiosa l’intenzione che muove Antunez a realizzare questa scultura carnale è quella di forgiare una creatura iperrealista e schioccante simile ai mostri gore; da ciò si conclude che la carne e la pelle vengono viste come elementi disturbanti, a differenza invece di quanto asserivano i filosofi francesi Merleau-Ponty e Nancy che rintracciavano nell’elemento carnale e cutaneo l’unica possibilità per fare esperienza del mondo e dell’altro.
Terminata questa prima sua fase in cui la carnalità faceva da protagonista, sempre negli anni Novanta Antunez Roca si trova a indagare le possibilità offerte dalla tecnologia. Nelle sue performance infatti appaiono dispositivi meccanici ed informatici che portano il corpo dell’attante verso la deriva dell’inorganicità, il corpo diventa così materia da progettare e ricostruire. Ed è con Epizoo (1994) che l’artista spagnolo sperimenta la tecnologia sulla scena e sul suo organismo.
Epizoo è un’opera collocabile sia all’interno del concetto di performance sia in quello di installazione plastica e consiste nel produrre stampi meccanici del corpo dell’artista tramite l’uso di meccanismi pneumatici capaci di muovere le varie parti del suo corpo. Tali dispositivi sono connessi ad un computer che proietta sullo schermo dodici infografie animate che raffigurano la sagoma completa dell’artista e la posizione del robot umano, cliccando sopra le immagini elettroniche si attivano i meccanismi collegati al corpo; questa azione è lasciata allo spettatore che controlla e decide ogni momento della performance.
La particolarità di questo progetto non sta solo nel relazionare l’organico con l’inorganico, ma anche in quello di dare allo spettatore un ruolo attivo, partecipativo e di responsabilità, perché ogni loro click “entra” e si imprime letteralmente nella carne del performer. Epizoo ricorda vagamente una pratica violenta in cui manca però il contatto fisico tra la vittima e il suo carnefice, lo spettatore/attore agisce a distanza, stimola i riflessi corporei di
Epizoo foto di Carles Rodriguez.
Antunez Roca senza doverlo toccare, evitando il contagio con la sua pelle; eppure nonostante questa lontananza tale performance si fonda interamente sull’interattività. È la contaminazione, sembra dirci Antunez Roca, la protagonista di questa performance (messaggio già sottinteso nel titolo dell’opera Epizoo, nome che deriva appunto da Epizoozia, malattia infettiva che colpisce gli animali e gli uomini.). In Epizoo è dunque custodita anche una riflessione sul tema del contagio e della trasmissione dei virus che avvengono tra gli organismi.
Secondo il performer spagnolo infatti è necessario cambiare le proprie relazioni e superare la dimensione biologica per addentrarsi in una realtà che non sia più scossa dai difetti organici, ma che indaghi altri territori corporali che siano liberati dall’incubo della fisicità.
Il performer spagnolo prospetta l’avvento di un corpo postorganico, in cui l’elemento elettronico serve per evadere dall’incessante peso della carne e includendo in sé l’alterità esso diventa ibrido: un paesaggio in trasformazione, una mappa in cui disegnare infinite possibilità.
di Nausica Hanz
Fonti: Ollivier Dyens, Metal and Flesh, MIT Press, 2001; Teresa Macrì, Il corpo postorganico, Costa & Nolan, 2006;
Roberto. Marchesini, Posthuman. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, 2001