di Gaetano ValliniQuanta tenerezza può essere racchiusa in uno sguardo? Quanto amore si può esprimere anche nel compiere un rito? È impossibile da raccontare. Bisognava guardare gli occhi di Papa Francesco, fissi, anche se solo per un attimo, in quelli delle persone verso le quali aveva appena rinnovato il gesto di Gesù con la lavanda dei piedi, e la delicatezza di quell’atto semplice e umile, per accorgersi del di più che può trasformare un memoriale in concreta vicinanza. Ed è questo che il Pontefice ha voluto testimoniare durante la messa in cena Domini celebrata giovedì pomeriggio tra i malati ospiti del centro Santa Maria della Provvidenza della fondazione Don Gnocchi, in via di Casal del Marmo, alla periferia ovest di Roma, luogo che per una singolare coincidenza si trova non lontano dal carcere minorile che fu scelto lo scorso anno dal Papa per l’analogo rito del primo giovedì santo del Pontificato. Una decisione, quella di vivere questo momento significativo dei riti pasquali tra persone in difficoltà o che versano in situazioni di particolare disagio, in continuità con una consuetudine pastorale che vedeva l’arcivescovo di Buenos Aires recarsi il giovedì santo nelle situazioni più marginali dell’umanità a lui ben note e sempre presenti nella sua missione quotidiana. Papa Francesco prosegue dunque l’incontro con quelle che ha definito «le piaghe di Gesù» nell’uomo di oggi. Lo scorso anno erano state le ferite di vite giovani ma già segnate dal disagio. Ieri le piaghe nella carne, provocate da patologie invalidanti: quelle di dodici pazienti accolti nei centri della Fondazione Don Gnocchi — otto uomini e quattro donne tra 16 e 86 anni, nove italiani e tre di origine straniera, uno dei quali di fede musulmana — con disabilità temporanea o cronica con cui convivono dalla nascita o fin da giovanissimi. Il Pontefice è arrivato al centro alle 17.15, accompagnato dall’arcivescovo Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato. Ad accoglierlo il cardinale vicario Agostino Vallini, il presidente della fondazione, monsignor Angelo Bazzari, il direttore del centro, Salvatore Provenza, ma soprattutto il caloroso e festante abbraccio di ospiti, operatori e volontari, con i loro familiari, giunti anche da altre strutture della fondazione per questo inatteso incontro, di cui avevano avuto notizia solo qualche giorno fa, e radunatisi fin dal primo pomeriggio, ennesima testimonianza dell’affetto che circonda Papa Francesco. Il quale, come sempre, non si è sottratto all’abbraccio, salutando quanti lo attendevano lungo il breve tragitto verso la chiesa, dove ha presieduto la messa, concelebrata dal cardinale Vallini, dall’arcivescovo Becciu, da monsignor Bazzari e dal cappellano del centro, don Pasquale Schiavulli. L’omelia del Papa è stata breve: pochi pensieri, a braccio, per spiegare il significato del gesto che si accingeva a compiere, svolto dagli schiavi, ha precisato, ma che Gesù ha lasciato ai suoi discepoli in eredità nell’ultima cena. E così, indossato il grembiule, si è inginocchiato dinanzi a ciascuno dei dodici ammalati, ha lavato, asciugato e baciato loro i piedi. E li ha guardati in viso, con un'espressione che era come una carezza, raccolta e ricambiata con commozione. «Mi ha colpito il modo in cui mi ha guardato; c’era qualcosa... Mi veniva da piangere», dice alla fine Osvaldinho, il più giovane, originario di Capo Verde ma da tempo a Roma; la scorsa estate un malaugurato tuffo in mare ne ha straziato un’adolescenza fin lì normale con un esito devastante: tetraplegia immediata. «Quando ho saputo che il Papa veniva qui e che ero stato scelto — aggiunge ancora incredulo — sono rimasto senza parole, come oggi: avrei voluto dirgli qualcosa ma sono rimasto muto. Ero troppo emozionato. Questo incontro lo porterò con me per sempre». Con lui c’erano Pietro e Angelica, i più anziani, con difficoltà motorie dovute a malattie degenerative il primo e post traumatiche la seconda; Walter, 59 anni, affetto da sindrome di down; Stefano e Daria, 49 e 39 anni, colpiti da gravi patologie neonatali che li hanno relegati su una sedia a rotelle; Marco, 19 anni, che dallo scorso ottobre lotta con una neoplasia cerebrale; a Gianluca, 36 anni, operato più volte per meningiomi che lo affiggono da quando ne aveva 14. E ancora Giordana, 27 anni, originaria dell’Etiopia, affetta da tetraparesi spastica in seguito a paralisi cerebrale infantile. Aveva avuto modo di parlare con Giovanni Paolo II nel 2002 per la beatificazione di don Gnocchi. Aveva preparato un breve testo da leggere. Non ci è riuscita, ma lo ha consegnato a Papa Francesco, certa che lo leggerà. Quindi Orietta, 51 anni, colpita dal vaiolo che le provoca un’encefalite in tenera età; come Samuele, 66 anni, che a tre anni si è ammalato di poliomielite e che al centro Santa Maria della Pace, l’altra struttura romana della fondazione, ha trovato non solo le necessarie cure mediche ma anche istruzione e formazione professionale prima, lavoro come operatore e finanche la compagna della sua vita dopo. «È stata una gioia immensa — dice — questo inatteso e straordinario incontro. Indescrivibile. In questo Papa rivedo don Gnocchi, con il suo darsi ai più deboli, ai sofferenti. Gli ho detto che pregherò per lui». E c’era anche Hamed, 75 anni, musulmano, originario della Libia, che porta i segni di un incidente stradale e che da quindici anni vive qui. «Sorpreso dall’invito — racconta — ho accettato di partecipare perché ho grande rispetto per la religione cattolica. E rispetto questo Papa, la sua intelligenza, il suo modo di parlare e di agire. Sono un credente e non posso fare differenze».Storie e provenienze diverse, tutte accomunate dalla sofferenza. Come pure dalla speranza che deriva non solo dalla professionalità, ma anche dalla passione e dalla disponibilità degli operatori e dei volontari che lavorano nei centri, circa trenta, della fondazione Don Gnocchi in diverse città. Perché chi vive a contatto con queste persone, non può che operare con amore. Amore, parola chiave del Vangelo della carità, quello richiamato dal Papa, che a conclusione della messa ha portato l’Eucaristia all’altare della reposizione, sostandovi poi in silenziosa adorazione. Quella carità sottolineata anche dalle parole di saluto e di ringraziamento successivamente rivolte al Pontefice da monsignor Bazzari, e testimoniata dallo «stile di vita di questa “Chiesa del grembiule”, che vuole servire e partire davvero dagli ultimi. Una Chiesa — ha aggiunto il presidente della Fondazione — che nasce dalla carità, che si nutre di carità, che vive per la carità. Per noi è stato meraviglioso e immeritato dono della sua presenza, del suo gesto generoso, simbolico. È stata una carezza alla sofferenza, non soltanto per la Don Gnocchi ma per tutto il mondo del dolore. Sono questi gli ultimi della classifica nella valutazione meritocratica, la maglia nera di un certo efficientismo, ma evangelicamente questi sono i primi. Sono, come diceva don Gnocchi, le nostre reliquie, che sono degne di culto e di venerazione». Non a caso, come ci aveva detto il cappellano, la domenica, quando si celebra l’Eucaristia, sull’altare non c’è la croce. E quella grande, di vetro rosso, alle spalle del celebrante non ha il crocifisso, «perché i crocifissi sono loro, i malati».«Ringrazio tutti voi per l’accoglienza. Vi ringrazio — ha risposto il Papa — per la vostra buona volontà, la vostra pazienza, la vostra fede, la testimonianza della vostra speranza. Il Signore risorto vi visiti, vi consoli e sia in mezzo a tutti voi. È questo il mio desiderio di una buona e santa Pasqua». Quindi ha salutato uno a uno tutti i malati: per ciascuno una benedizione, una carezza, un parola di conforto. E lo stesso, prima di ripartire per il Vaticano alle 19.30, con gli operatori, i volontari, le religiose. Tutti porteranno nel cuore la gioia e il senso di questo incontro speciale.
(©L'Osservatore Romano – 19 aprile 2014)
Il video della celebrazione