3 ottobre, tre anni in Germania.
L’ultimo 3 ottobre festeggio 3 anni in questo paese. È rimasto incastonato nella mia mente quel giorno. Un giorno di sole in cui sono atterrato all’aeroporto di Hahn. Il taxi mi aspettava agli arrivi, una delle poche volte che mi è capitato. Fuori dall’aeroporto c’era una giornata di sole stupenda. Il taxi viaggiava tranquillo tra la foresta verdissima. Il guidatore in un inglese stentato mi diceva che tra un mese tutto sarebbe stato grigio, lui che veniva mi sembra dal Sud America. Continuando il viaggio mi avvertiva che tra un po’ sarebbe stato un gran freddo con neve, avevo i miei timori e quello rincarava. In quel momento l’aria fuori era deliziosa e un solo davvero abbacinante rendeva bella la distesa di alberi attraverso cui si snodava la strada, tortuosa ma non troppo. Il 3 ottobre era domenica. Il contratto diceva che dovevo iniziare a lavorare il 1 ottobre, venerdì. Ma dalle mie parti si dice : “di Venere e di Marte non si da inizio all’arte”. Poi per essere al lavoro l’1 mi sarei perso un weekend con la famiglia. “In Germania siamo così, si inizia a lavorare dal primo del mese!”, mi era stato risposto dall’addetta del personale. Poi parlando con il manager di turno avevo ottenuto un indulto e potevo iniziare il 4. Già ero là da solo il resto della truppa sarebbe seguita dopo. Ero la da solo perché non avevamo un appartamento. La mia azienda ne aveva trovato uno temporaneo per me , per i primi tre mesi, tempo che dovevo sfruttare per trovare una sistemazione definitiva. Ricordo con piacere quei primi giorni in un mondo nuovo, pieno di sorprese e novità. La prima registrazione della mia venuta in Germania, la prima lezione di tedesco, il trovare una nuova strada anche solo per cercare una chiesa o per trovare l’Ikea.
Ripercorrendo con la mente quella strada fatta in taxi, è ovvio fare un bilancio. Un bilancio non fatto da pesi e contrappesi ma una considerazione su dove siano le ombre e dove siano rimaste le luci. Alla fine ci devono essere le ombre, altrimenti il quadro sarebbe tutto bianco.
Perché ero lì a percorrere quelle strade che si snodavano nella foresta? Fuggivo? Speravo? Avevo un buon lavoro, con uno stipendio buono. Mia moglie lo stesso. I bimbi erano ben inseriti a scuola. Avevamo vari amici vicini e lontani che frequentavamo regolarmente. La vite scorreva dolce tra qualche incazzatura mia al lavoro con il proprietari dell’azienda e una lezione di violoncello di Sofia. Stavo al lavoro parecchie ore : dalle 8 fino alle 7 di sera. Praticamente da sempre ho fatto orari del genere. Per emergere, per dare una mano, per colmare buchi lasciati da altri. Mi piaceva così, come a tanti altri che ho conosciuto.
È difficile capire cosa sia che fa saltare le vite da un binario all’altro. Non è mai una cosa sola, almeno per me. C’era da sempre in me la voglia di vivere al di fuori dall’Italia, di mettermi alla prova. Dopo tre anni sono ancora tanto orgoglioso di essere italiano. Ho scoperto che al di qua delle alpi le persone sono un po’ più tristi e fredde. Hanno regole che seguono in maniera ferrea ma passano parecchi con il semaforo rosso o fanno inversioni dove non è consentito. Ci sono anche qui persone che non salutano mai come un nostro vicino di casa in Italia, altre che si presentano alla porta facendoci una sorpresa, magari con 4 figli e noi li accogliamo con latte e biscotti. Facendo quella strada nella foresta non avrei mai pensato di andare incontro a tutto questo. A tutta questa vita. Ogni luogo in cui ci si rimane un po’ rimane un po’ nel cuore. Ora a Koblenza abbiamo ed avremo sempre una figlia che dimora nel camposanto e questa città, il lungo Mosella dove abitiamo, ci rimarrà sempre nel cuore. Il destino mi chiede forse ora di andare oltre, di tornare. Di essere italiano orgoglioso in patria. È forse quella la via giusta? Dio ti prego rispondimi! Non capisco cosa vuoi da me! Dopo il primo anno che è stato veramente tremendo per l’integrazione qui, abbiamo trovato un bellissimo bilancio fra famiglia e lavoro. Non lavoro più tante ore, otto di regola, qualche volta nove ma al venerdì alle tre sono quasi di regola a casa. Non mi incazzo più al lavoro. Però l’Italia mi manca. Mi manca il casino che c’è per strada, il sole , i parenti, mia mamma, il mare a poche ore di macchina e le montagne a poche ore di macchina. Lucio Dalla canta e nell’aria dice “Bologna mi sei mancata un casino”. Già Bologna. Un secolo che non ci vado. Le case con le pietre rosse. I portici e il porfido bagnato per terra. Attraversando la vita le regole , le fondamenta e i valori possono cambiare tanto. Quello che era fondamentale un anno, l’anno dopo non conta più nulla o viceversa. Virginia ci ha portato la fede e questa non andrà più via. È importante tornare in Italia? Riprendere le redini della propria carriera? Smettere di farsi portare dal vento? O aspettare ancora un’altra spinta in un’altra direzione? Qui in Germania la famiglia è davvero ben sostenuta a livello economico e di scuole. Che fare quindi? Economico perché ci danno sgravi fiscali consistenti per Sara che sta a casa e quasi 200 euro al mese per figlio. Tutto questo ha smorzato la frenesia che avevamo nel bel paese per il lavoro. Ha dato più tempo a loro, i nostri figli. Se torniamo sapremo ritrovare quell’incredibile equilibrio che abbiamo ora? E Virginia la verremo a vedere ogni due mesi? A rinfrescare un po’ i fiori e basta? Come dicevo sopra cose che un anno fa ritenevo importanti sono diventate nulla ora.
Il taxi arriva di fronte al cancello di quella che sarà la mia nuova azienda. È domenica, mi son chiesto se ci sarà qualcuno ad aspettarmi. Una curva e scorgo in quello che è il posto del portinaio una persona. Scendo. Pago in contanti l’autista che mi aiuta con la valigia. La trascino verso il portone e la persona dentro spingendo un pulsante lo apre. Dichiaro in inglese come mi chiamo , ma il guardiano di turno proprio l’inglese non lo parla. Tira fuori una busta con sopra il mio nome e le chiavi della macchina che mi servirà per i primi mesi. Volkswagen , che altro. Carico la valigia, accendo il GPS nel caso che il tipo dell’appartamento non sia in orario. Esco dal grande cancello che si chiude dopo il mio passaggio, apro il finestrino e il tepore della giornata mi investe il volto. Dopo pochi metri mi fermo, un tipo si sbraccia da una macchina. È il ragazzo che mi affitterà l’appartamento. Lo seguo in macchina nel vicinissimo paesino. Tutto è pulito e ordinato, mi sembra di guidare sulle uova per la paura di disturbare quel posto in ci regna solo silenzio. Entriamo in una zona residenziale. La macchina che seguo si ferma sul marciapiede. Io accosto dietro. Scendiamo a mi da le chiavi dell’appartamento. Mi accompagna alla porta e quindi su per le scale. Parla un inglese comprensibile ed è anche simpatico. Mi dice che affitta spesso appartamenti alla mia azienda. Apro la porta di quella che dovrà essere la mia dimora per i prossimi tre mesi. Moquette per terra, situato sotto al tetto. Ad occhio 20 metri quadri. Nella stanza principale un tavolino e il letto. Vicino alla porta frigo e un microonde. Una porta da sul bagno. È tutto li. Basterà alla grande. Quel microonde! Ci ho fatto anch’egli spaghetti una sera! Saluto il tipo simpatico, sistemo la valigia reclinandola per poi aprirla. Ho la macchina del caffè dentro e il caffè stesso. Ma come faccio domani se non ho nè latte nè un fornello?