Alcuni giorni addietro ha concesso un’intervista a un quotidiano turco, dichiarando: «I miei lavori non sono pubblicati, le mie opere non sono messe in scena. La mia vita futura qui è impossibile. Ho preso la decisione di lasciare la patria e di andare nella fraterna Turchia».
Gli intellettuali armeni e turchi, l’OSCE e altre organizzazioni hanno condannato le molestie cui Aylisli e la sua famiglia sono stati sottoposti. Il coro di proteste internazionali è stato unanime, a difesa della libertà di parola dello scrittore azero e, più in generale, per il rispetto delle espressioni d’arte. Ma Aylisli non è rimasto a guardare, accusando gli intellettuali azeri di omertosa complicità, indifferenti al pubblico dibattito che il romanzo implicato ha scatenato in molti Paesi: «Hanno sempre sostenuto la mia posizione. Tuttavia non possono esprimere liberamente le loro opinioni perché hanno uno stipendio dello Stato. La parte pensante libera della società è apertamente schierata a mio favore. Perfino un gruppo di scrittori della Turchia mi sostiene. Ma nessun politico in Azerbaijan mi ha chiamato».
Lo scrittore ha ribadito che il romanzo è un messaggio, in particolare per gli Armeni che vivono a Nagorno Karabakh (repubblica che si è autoproclamata indipendente nel gennaio del 1992), un messaggio chiaro: gli Azeri capiscono gli errori fatti e vedono che cosa non volevano fare, ma cosa dovevano fare.
Nel frattempo, Aylisli, già arrivato in Turchia, è stato costretto a ricredersi rispetto a quanto aveva dichiarato all’inizio di febbraio, quando, senza se e senza ma, si diceva sorpreso di come qualcuno sostenesse che avrebbe lasciato il suo Paese. Le minacce sono state troppe e l’Azerbaijan si dimostra un paese intollerante verso i propri fantasmi che la storia, indipendentemente dalle posizioni politiche, ha mostrato nei fatti e non nelle opinioni.
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