Un film di scuola Farhadi (quello di Una separazione e Le passé). Anche qui si indaga su microcosmi familiari iraniani che spessso sono inferni, tra coppie già lacerate e altre in via di corrosione. Con una struttura circolare assai d’autore. Un film che potrebbe entrare nel palmarès. Voto tra il 6 e il 7
Sarà l’effetto Una separazione, il gran film iraniano di Farhadi vincitore due anni fa di ben due Oscar, oltre che dell’Orso d’oro alla Berlinale. Fatto sta che da un po’ il cinema made in Persia se la vede con – e ci fa vedere – interni medioborghesi percorsi da crisi familiar-coniugali, in una visione non così pacificata e idealizzante del vivere oggi in Iran. Duro, disincantato realismo. Teheran sembra perfino essere diventata nel cinema d’oggi quello che era la Svezia nei bergmaniani anni Sessanta e Settanta, la sede di ogni gioco al massacro coniugale, con mariti e mogli che si dilaniano tra rinfacci, rimbrotti o, peggio, che si maltrattano con l’arma peggiore, quella del silenzio e dell’indifferenza. Ma cosa mai diranno gli imam davanti a film come quelli di Farhadi (penso anche a Le passé)? O a questo Acrid? I quali certo non restituiscono un’immagine di esistenze felici e risolte all’ombra dell’Islam sciita, anzi. Kiarash Asadizadeh non è all’altezza del maestro di Una separazione, non ne replica la complessità e l’abilità nel mettere a punto plot stratificatissimi, ma sa comporre un’opera rispettabile e assai degna, con una struttura circolare che, si sa, fa sempre cinema alto e autoriale, e qui applicata senza forzature e intellettualismi, con molta naturalezza. Si parte da una coppia borghese, lui ginecologo femminiere, lei direttrice di un istituto assistenziale, giunta allo stadio terminale tra odi e disprezzo (l’attrice è di una quelle donne mediorientali-mesopotamiche di altera eleganza e bellezza). Seguiamo lui nel suo studio, alle prese con la nuova segretaria, che lo ha ingannato dicendogli di non essere sposata per non perdere il posto, e invece lo è, sposata, anzi malmaritata a un tizio che la tradisce con un’insegnante di chimica. E via così, da una coppia all’altra, in una ronde che finisce al punto di partenza, in una staffetta circolare in cui a passare da un personaggio all’altro sono il disagio, il malessere, la noia, il tradimento, l’impossibilità di essere in due, di vivere in due. Non c’è molta speranza per queste esistenze sotto il cielo di Teheran. Kiarash Asadizadeh gira con fluidità e naturalezza, sa restituire attraverso dialoghi credibili le esistenze, sta addosso ai suoi personaggi senza esagerare con la macchina a mano. Ha rispetto ai fatti, alle cose, alle persone che racconta un approccio disincantato, il suo sguardo è lucido e oggettivo. Il limite di Acrid sta nel fatto che, una volta innescata la narrazione, non ci sono mai scarti, scatti o sorprese, il girotondo delle coppie malate continua inesorabile non privo di una certa meccanicità. Ma resta un buonissimo film, tant’è che quando è stato presentato al Festival di Roma 2013 ha ottenuto stima e riconoscimenti, compreso il premio collettivo al cast.
al cinema: ACRID (recensione). Teheran capitale della crisi di coppia
Creato il 12 giugno 2015 da LuigilocatelliPotrebbero interessarti anche :
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