Nemmeno i film più meravigliosi, nemmeno quelli con più cose dentro li ho quasi mai ritenuti necessari.
Fino a ieri, in una magnifica saletta cinematografica da 25 posti, un salotto con schermo grande insomma. Solo io, un'altra persona, il mio blocchetto e quest'opera enorme.
E necessaria.
Il 17 aprile del 1975 i Khmer Rossi prendono Phnom Pehn, la capitale della Cambogia. Probabilmente è da considerarsi come data di inizio di una delle più grandi e sanguinarie dittature di sempre, quella di Pol Pot. Nessuno conosce i numeri ma nella migliore delle ipotesi un cambogiano su 3 fu ucciso o morì di malattie e stenti tra il 1975 e il 1979. Parliamo, nella stima più bassa, di un milione e 200.000 persone.
Non mi interessa la politica, lo sapete, ma l'uomo.
E di uomini parla questo straordinario documentario, di cui è difficile vederne i contorni della grandezza.
Chi parla, il regista, è uno che all'epoca era un ragazzino, 13 anni.
Phnom Pehn era una città grande e viva. C'era il mercato del pesce e della carne, c'era gente che danzava e cantava, c'era il cinema. Arrivarono i Khmer Rossi e portarono via tutti. La città divenne fantasma, tutti i suoi abitanti, o almeno quelli che non furono uccisi (e bastava poco per esserlo, anche un paio d'occhiali vista la volontà di distruggere tutto quello che poteva rappresentare l'istruzione) furono portati in campagna, in campi da lavoro che richiamano tanto altri ben più famosi.
Furono spogliati di tutto, indossarono una veste nera e da quel giorno iniziarono a lavorare la durissima e arida terra per creare la nuova Cambogia Comunista.
La terra già. La terra.
Se quegli schiavi erano uomini costretti a lavorare una terra impossibile da lavorare così, con la terra, il regista Rithy Pahn ha voluto ricostruire e raccontare quegli anni.
Costruendo delle straordinarie miniature di creta.
Erano uomini di polvere, terra e fango, così li racconterò, con polvere, terra e fango.
L'immagine mancante, come già fu per lo straordinario The Act of Killing, è il racconto di un pezzo inumano della nostra storia raccontato attraverso il filtro dell'arte. E se nel film di Oppheimer l'arte era rappresentata dal teatro qua è la miniatura di creta.
Il regista è arrivato a un'età in cui il ricordo della sua infanzia terribile si è fatto insostenibile. Ma quel ricordo non è quello che ha conosciuto l'umanità "civilizzata", è un ricordo di morte e soprusi, di libertà negate e disumanizzazione. E' l'immagine mancante che il mondo non ha conosciuto, abituato com'era a vedere, di immagini, soltanto quelle ufficiali di regime ("L'avete viste voi a Parigi queste immagini?" dirà ad un certo punto il regista davanti a delle scene terribili). E lui questa immagine mancante allora se la costruisce, pezzo dopo pezzo, con delle miniature di creta che sostituiscono e rappresentano vittime, carnefici, luoghi e fatti di allora. L'effetto è straniante sì, ma meraviglioso. A queste ricostruzioni artigianali si accompagnano (a volte addirittura sovrapposti) veri filmati d'epoca dei campi di lavoro, di Pol Pot, della città deserta. Mai quelle di torture o uccisioni però. Sempre immagini mancanti già.
E' difficile spiegare quello che accadde quegli anni. A differenza del genocidio ebreo qua c'era anche l'ipocrisia di far credere ai "detenuti" di lavorare tutti dalla stessa parte, di stare costruendo un nuovo stato cambogiano basato sull'uguaglianza. Che doveva ripartire da zero, dalla nuda terra.
Un comunismo così radicale come non si era mai visto, in cui anche possedere un pentolino era "sintomo di individualismo", in cui oltre un cucchiaio per mangiare 20 grammi di riso non era permesso possedere altro, in cui non ci doveva essere istruzione ("La vanga è la vostra penna, la terra il vostro foglio"), in cui persino i bufali pensavano "che strani questi uomini che bevono la nostra acqua, il fango".
Disumanizzazione completa. Non solo non ci sono più beni, nemmeno quelli minimi, ma non c'è più possibilità di pensare, parlare, emozionarsi, nemmeno soffrire.
Quello che sorprende è che il regista (fisso in voice off) sembra raccontare tutto questo quasi senza odio. E lo fa principalmente perchè non racconta i fatti con la testa di oggi, ma con quella di allora, quella quindi plagiata da un'ideologia alla quale era impossibile non aderire o non condividere.
C'è profondissima umanità in questo doc, nessuna rabbia. E c'è rispetto. Non vedrete mai niente di così terribile, eppure quello che accadeva in quegli anni, specie le uccisioni, erano davvero inumane. Sembra che anche lui per pudore, per rispetto o forse solo per paura di un ricordo troppo devastante non riesca mai a superare un certo limite. Si arrivò a creare un popolo di uomini non più umani, come un gregge di pecore incapace di decidere la benchè minima cosa. L'ideologia era talmente forte che bambini di 9 anni potevano accusare la loro madre di aver rubato una verdura, e per questo farla giustiziare.
"La fame è un'arma" dice il regista, una delle armi più forti. Porta un popolo alla fame e lo comanderai con facilità.
In italiano c'è l'espressione "scavarsi la propria fossa". In Cambogia questo avvenne, milioni di persone lavoravano per scavarsi la loro fossa, pensando invece (o costretti a pensare invece), di stare costruendo il proprio futuro.
Ma l'immagine mancante è anche un documentario fortemente metacinematografico, ma in un senso talmente radicale come poche volte lo si è visto prima.
Non è cinema che parla di cinema ma dell'essenza di esso, l'immagine. "Quando vedi un'immagine che non sia un disegno sai che è vera". L'immagine è verità. Sì, ma lo sarebbe se comprendesse anche quella mancante.
All'epoca lo stesso cinema fu smantellato. Pellicole e set distrutti, attori e registi o uccisi o deportati. Non ci doveva essere niente che richiamasse al capitalismo. Le uniche immagini sono quelle di regime, documentaristiche, ad esempio tutte quelle trionfanti di Pol Pot. Quando vennero a trovarlo i cinesi (perchè, ovviamente, la Cina fu la grande ispiratrice di tutto) quella storica stretta di mano è commentata tristemente così dal regista: "Questa immagine di fratellanza invece non è mancante".
"L'immagine mancante siamo noi", afferma ad un certo punto il regista, forse la frase più forte del doc. L'immagine mancante siamo noi e quello che abbiamo subito. L'immagine mancante non è il pezzo di puzzle che non si trova o si è nascosto ma è un intero puzzle molto più grande di quello che è stato venduto.
Lui, il regista, il suo pupazzetto di creta che lo rappresenta è l'unico non vestito di nero, ma rosa a pois. Come se adesso, anche nel vestiario, lui voglia immaginarsi all'epoca con i suoi sogni da bambino.
Un bambino che ha sentito morire di stenti una bambina vicino a lui, affamata, che per provare a farcela quella notte si mise a mangiare solo il sale.
Un bambino che seppellì centinaia di persone sentendo il rumore delle ossa sotto i colpi della sua vanga.
Un bambino che immaginava continuamente il cielo. E fantasticava sull'Apollo arrivato sulla Luna. E poi guardava giù, sulla loro Luna di terra da lavorare. Una Luna fatta di nulla.
E poi ancora cielo con 3 piccolissime figure di creta, tre bambini, che volano lassù dopo esser morti di stenti quaggiù.
E un altro che vola sopra la città deserta che un giorno fu tutta la loro vita.
Il volo, il cielo.
Perchè quando la terra in cui vivi è solo una terra di pietra, polvere, soprusi e morte, quando all'orizzonte di questa terra non vedi alcuna speranza, l'unica salvezza è dalla parte opposta ad essa, nel cielo.
"Guarda nostro figlio alla tv" dicono due figure di creta che un giorno furono uomo e donna, "sta parlando di noi".