Purtroppo, per quanto possiamo sforzarci di fare tabula rasa ogni volta che ci mettiamo davanti ad una pellicola, non ci sarà mai nessun film che riusciremo a giudicare senza, consciamente o no, ripensare a sensazioni, (pre)giudizi, visioni e confronti passati.
Quel regista non mi ha mai detto nulla.
Quell'attrice non la sopporto.
In questo genere c'è di meglio.
Quella scena è già vista.
Etcetera.
Io ho visto un solo film di Moretti, uno. Chi mi conosce non farà fatica ad immaginare quale.
E non ho mai visto un film della Buy, o almeno nessuno dove fosse protagonista assoluta.
Nel primo caso tutto è dovuto alla mia stupida idiosincrasia verso il cinema impegnato, idiosincrasia pari solo all'amore assoluto che ho invece per quello impegnativo.
Nel secondo caso, quello della Buy, non ci sono tante spiegazioni, se non che il 90% del cinema che fa lei non mi interessa, e il restante 10% (perchè di bei film ne ha fatti) per un motivo o per l'altro non mi è mai capitato sottomano.
Quindi io l'odio o la venerazione a prescindere per Moretti non ce l'avevo.
E non avevo, quindi, nemmeno mai visto la Buy nel ruolo che interpreta ormai da 20 anni, quello di donna isterica. Che, ca va sans dire, fa anche qua.
Avevo davanti a me solo un film, un regista e un'attrice, tutti nuovi per me.
In realtà, a questo punto lo svelo, di Moretti avevo visto La Stanza del figlio, un film che con grandissima asciuttezza ed essenzialità raccontava di quel dolore lungo che è l'elaborazione del lutto.
E mi ritrovo adesso Moretti che mi parla di un altro dolore lungo, ma quello diametralmente opposto all'elaborazione del lutto, ossia la preparazione ad una morte ormai sicura.
L'aspettare la morte di qualcuno o l'elaborarla.
Una madre adesso, un figlio allora.
Due temporalità dense e vuote allo stesso tempo, due scorrere del tempo fisico e psicologico che molte volte sono tra le prove più dure che in vita potremo mai sopportare.
Diciamolo subito, ho trovato il film bellissimo.
E la Buy (con questo viso ormai odiato da tanta critica sopraffina) un'attrice formidabile, probabilmente non talentuosa, ma una che onora il mestiere dell'attore, un mestieraccio che per chi non ha talento è davvero durissimo.
Moretti è stato sempre tacciato di autoreferenzialità.
C'è poco da commentare, impossibile dire il contrario. In realtà mettere sè stessi, sia fisicamente che attraverso le proprie idee, dentro i film è qualcosa che non necessariamente sbagliato, anzi, di fondo credo che sia una delle cose più importanti che un autore debba fare. Il rischio semmai è la glorificazione di sè stesso, ecco, lì sta semmai l'errore.
Se possibile qua Moretti ha messo due volte sè stesso dentro il film, quasi 3.
Una nel personaggio della Buy, regista del film nel film, chiarissimo alter ego Morettiano (lo si capisce praticamente in ogni battuta).
L'altra nel personaggio che si ritaglia, quello di un figlio (e fratello) che cerca in maniera il più possibile matura e lucida di prepararsi alla morte della madre. Autoreferenziale perchè il film, lo dice lo stesso Moretti mi pare, dalla morte della madre del regista trae spunto.
Due fratelli diversissimi l'uno dall'altro, ma tutti e due sono Moretti.
E lo sono sopratutto "insieme", l'unione dei due.
Sinceramente la prima mezz'ora del film mi aveva fatto storcere il naso più volte.
Scene riuscite e altre no, personaggi riusciti e altri no, battute riuscite e altre no, attori capaci e altri meno, mi trovavo a cambiare continuamente giudizio. E anche la stessa sceneggiatura contribuiva a darmi questo senso di film poco coeso, perchè non solo alternava in modo continuo le due vicende principali del film (i figli con la madre morente e il film nel film) ma metteva dentro anche sogni, flash back e qualche piccola vicenda laterale non troppo interessante.
Poi però si inizia a vedere tutto l'insieme in maniera più omogenea, e il film, almeno personalmente, decolla.
Dal trailer credevo che avrei odiato il personaggio di Turturro (oddio, mi sembrava una vera e propria macchietta) e invece l'ho trovato perfetto. Probabilmente è il personaggio più profondo e sfaccettato del film, caciarone, sfacciato e sulle nuvole sì, ma anche umile e profondamente umano. Sono gli occhi a parlare per lui. E' un uomo solo che cerca di mascherare profonde insicurezze sotto le spoglie del divo. Uno che fa capricci e insulta, ma lo fa quasi per dovere, per ruolo ("voglio tornare alla realtà!", dirà) mentre proprio in quella realtà dove vuole tornare è tutt'altra persona.
Turturro istrioneggia, sembra quasi improvvisare (come il suo personaggio) e almeno nella scena del camera car raggiunge vette comiche davvero impensabili.
Ma questo, lo dicevamo, è un film sul dolore, tutto il discorso metacinematografico è molto interessante sì, ma non sempre riuscito (quando vedo Moretti che affida la "sua" parte da regista ad una donna come non ripensare al finale di Synecdoche New York..., e il confronto è impietoso).
Nel secondo tempo è come se accada una strana cosa.
Il titolo del film resta sempre "Mia madre" sì, ma se nel primo tempo la protagonista era quella a cui quel "Mia" si riferiva (la Buy), nel secondo invece è la seconda parte, la "madre" a venir fuori.
Ed ho capito quello che mi ha così affascinato di questo film.
Anche prima ho trovato tanto di buono, come ad esempio la scena dell'allagamento dell'appartamento (possibile metafora della situazione psicologica della Buy, con quel dolore impossibile da arginare) o quel saluto di Moretti da dietro il vetro alla mamma allettata, con quel viso che poi, quando torna dalla nostra parte, racconta tutta la tristezza e le difficoltà.
Ma la magia del film è nella madre.
E non nel modo, a mio parere molto umano ed essenziale, con il quale Moretti ci racconta l'avvicinarsi alla morte.
La magia di "Mia madre" è in uno degli aspetti più apparentemente marginali del film, nell'amore della stessa per la lingua latina.
Quando l'ultimo giorno ce ne andremo noi non siamo solo chi abbiamo amato, ma anche cosa abbiamo amato.
E allora vedere quei libri che nessuno ormai leggerà più disposti sul tavolo, vedere lei che legge i nome dei medicinali, questi nomi quasi sempre derivanti dal latino, vedere quello che una persona che ha amato profondamente qualcosa ha provato ad insegnare ai suoi allievi, sono le cose che più mi porterò dietro di questo film.
E, in questa lettura, ho trovato una scena da pelle d'oca.
La nonna torna a casa, ha il suo librone di latino sulle gambe.
Sul divano c'è la nipote.
Insieme riusciranno a tradurre una frase.
E' una scena che ha dentro tutto. Una vita che se ne sta andando ed una che si sta formando, un rapporto meraviglioso tra nonna e figlia, una donna che nei suoi ultimi giorni è là, con la passione più grande della sua vita, il latino, e prova ad aiutare una ragazzina che quella lingua proprio non riesce ad amarla.
Forse perchè ha avuto la fortuna di avere quella nonna, ma non un'insegnante come lei.
E' una piccola scena di una potenza spaventosa.
Ed è una scena decisiva, perchè è quella che ci prepara nel vederne un'altra, quella in cui una ragazzina sente una telefonata e si tuffa sotto le coperte a piangere il suo dolore.