L'immaginario di Yaşar Kemal affonda consapevolmente le sue radici nel patrimonio narrativo orale della penisola Anatolica: leggende, racconti, repertori poetici orali dei cantori erranti -andrebbe qui almeno ricordato il dengbej delle terre curde-, repertori pastorali che poco hanno a che fare con gli idilli di Teocrito o di Virgilio, poiché si sostanziano principalmente di cruda e faticosa realtà, piuttosto che di sublimazione letteraria. Ed è appunto nello spazio della divaricazione fra un serbatoio narrativo ancestrale e un realismo "sociale" attento alle dinamiche contemporanee che si colloca la voce dello "sciamano" Kemal. E questa divaricazione non è altro che il riflesso di una effettiva spaccatura storica che percorre l'Anatolia, in bilico sino ad oggi fra ruralismo feudale e modernità capitalista. Quando Orhan Pamuk dichiara in una sua intervista alla Paris Review di aver avvertito, ai tempi degli esordi, l'angoscia di poter cadere in un "piatto realismo come gli scrittori turchi della generazione precedente" è proprio a scrittori come Yaşar Kemal che si riferisce; resta da vedere se quel realismo sia davvero "piatto" o se invece, prosecutore com'è di una tradizione millenaria, non sia in qualche modo "tridimensionale": nel senso di una dimensione "testimoniale", di una dimensione efficacemente "rappresentativa" e di un dimensione infine conseguentemente "tradizionale". Il romanzo russo allora è un modello fondamentale. Entriamo nel romanzo, il terzo scritto da Kemal, per capire meglio di cosa parliamo.
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(continua come sempre su Lankelot)