Differenza enorme, tuttavia, sembrerebbe esservi nel fatto che il matrimonio religioso è indissolubile e quello civile no, ma anche qui solo sulla carta, mentre sul piano pratico l’annullamento, previsto dal Codice di Diritto Canonico, dà effetti sostanzialmente simili a quelli del divorzio, previsto dal Codice Civile. Cosa consenta il divorzio a chi si sia sposato con un matrimonio civile è noto, e altrettanto cosa consenta l’annullamento a chi si sia sposato con un matrimonio religioso: anche qui, sulla carta, sembrerebbero esservi enormi differenze, però, con una sempre maggiore disponibilità dei tribunali ecclesiastici a riconoscere i casi in cui a uno o a entrambi i coniugi sarebbe mancata la consapevolezza riguardo agli impegni derivanti da un matrimonio religioso al momento di contrarlo, all’annullamento sia arriva anche più in fretta che al divorzio. In entrambi i casi, Chiesa e Stato prendono atto che quei due non possono più vivere sotto lo stesso tetto, e il fatto che la Chiesa ci aggiunga che non avrebbero mai potuto, perché il matrimonio è sempre stato nullo, fa differenza, certo, e anche bella grossa, soprattutto per quello che riguarda gli strascichi, ma in sostanza gli effetti finiscono per essere coincidenti. Anche qui: diverso il significato che i due codici danno al fatto che due coniugi non debbano più essere considerati tali, diverso l’apparato normativo che regola il come ci si arrivi, ma il carico dal quale vengono liberati è lo stesso. Anche qui: se parliamo dei codici attualmente vigenti.
Su quanto segue, invece, mi aspetto forti obiezioni. Affermo, infatti, che la sempre maggiore disponibilità dei tribunali ecclesiastici a dichiarare la nullità di un matrimonio non sia altro che il tentativo – quanto conscio non saprei, ma azzarderei non troppo – di rendere competitivo il matrimonio religioso rispetto a quello civile: nell’impossibilità di poter rivedere il vincolo di indissolubilità, la Chiesa viene incontro alla crescente difficoltà di tenere in piedi un matrimonio religioso con la disponibilità a considerarlo nullo, poi vai a capire quanto entri in gioco la misericordia e quanto la santissima cazzimma. I matrimoni religiosi validi, dunque, sarebbero quelli che si mantengono in piedi, gli altri non lo sarebbero mai stati: un modo come un altro per ribadire il primato del matrimonio religioso in quanto sacramento.
Di qui il frequente tornare di Bergoglio sulla necessità che la Sacra Rota agevoli nei tempi e nei costi i procedimenti di annullamento: più sarà chiaro che il matrimonio religioso offre una via d’uscita più agevole del divorzio, più facile sarà invertire la tendenza che da decenni lo vede sempre meno favorito rispetto a quello civile. Anche in questo, come per il resto, Bergoglio rincorre il secolo, e con strumenti relativamente efficaci. Solo relativamente, però, perché, come per il resto, rischia grosso. Se, infatti, come ha affermato ieri, «il giudice, nel ponderare la validità del consenso espresso, deve tener conto del contesto di valori e di fede – o della loro carenza o assenza – in cui l’intenzione matrimoniale si è formata [perché] questa eventualità non va più ritenuta eccezionale come in passato, data la frequente prevalenza del pensiero mondano sul magistero della Chiesa», la validità di un matrimonio religioso resta confermabile solo a posteriori, cioè se nessuno dei coniugi solleva la questione della sua invalidità col dichiarare l’esistenza a priori di una «riserva mentale circa la stessa permanenza dell’unione, o la sua esclusività». C’è bisogno di indicare dove si annidi l’insidia alla fede stessa?
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