Al netto di Te

Creato il 27 dicembre 2011 da Thefreak @TheFreak_ITA

Come in tutte le città costernate da nitide notti e splendidi soli, abitudini si susseguono, momenti si consumano, in attesa, in qualche angolo, fosse solo uno scorcio di vita da una finestra.

Quando l’alba entra in scena con tutto il suo manto ambrato, ringrazia la Luna e riprende le redini dell’equilibrio celeste, sei li a seguitare l’odore di pane caldo che proviene da qualche spiffero fuggito via dal mondo fuori, e ti alzi dal letto.

In sonnambule cadenze segui quell’odore, in ritmiche gesta, di volta in volta, aggiungi a quel silente concerto di abitudini, ogni strumento necessario per iniziare la dolce musica delle mattine d’inverno, con le dita a scorrere sulle tazze, che sfiorano agili le forme dei cucchiaini quasi a tastare un piano, che si muovono sicure tra il caffè e la dolce povere, tra un arancia e una fetta di ciambella, tra la semplicità in divenire nell’attimo in cui non hai neppure fatto caso a pensare.

Quel giorno di profumi glucotici, in progressivo sbattimento tra olfatto e gola, tra le cose festose nella mia cucina degna di fate e gnomi mancava l’essenziale, e ancora quell’odore a seguitare.

Decido di concedermi quella tentazione. E in un attimo scale, pigiama rinchiuso in cappotti ermetici, orecchie come gomitoli, occhi come cerniere.

Entri in fragorosa presenza in quel bar, fonte di ogni catalizzazione, libera al di sopra del tuo naso, cosparsa di quella leggerezza che solo le mattine d’inverno riescono a regalarti, distratta dai tuoi occhi che rivendicano la visione di foglie d’arancio immobili ed emozionanti esili e fragili, tra il precipizio del tempo e il vuoto dell’asfalto; distratta appunto, fino al momento prima di vederti.

Il mio sguardo dischiuso nel mentre di connettere con tutto il resto al di sotto e al di sopra di me, l’olfatto tace di colpo, nessun candore dolciastro ha più effetto, nessuna polaroid di nature vive oltre la porta ha più suggestione di quel corpo che si presenta davanti ai miei iridi nella loro fase semidormiente.

Luce, come in una splendida schiusa di farfalle, calore al sapor albicocca in transito sulle mie guance, le labbra serrate e morse del rimpianto consapevole del pigiama sotto il mio cappotto, la Tua indifferenza, che un istante dopo diventa consapevolezza, della mia presenza, di poco distante dalle Tue mani, che giocano con una tazzina di vetro, con del caffè.

L’olfatto si sveglia e in scansioni autonome percepisce ogni palpito inebriante di quel profumo che arriva da Te e va a pizzicare, in agitate movenze, al pari di giri di contrabbasso, la mia epidermide. Sono sveglia, in un tratto di spazio e tempo in cui non riesco a comprendere quale forza magnetica mi porta a non sentire il mio corpo immobile, che mi accompagna verso una paralisi figurata ma effettiva, che mi consegna in uno stato di shock riflesso nei cappuccini che mi passano davanti, e sembrano frenarsi in rapido gettito, ora che si accorgono della mia resa di fronte al tuo sorriso.

Ho sentito un forte colpo. Precipita al di sotto delle mie ali di ossa alla ricerca di quel fiore incastrato tra la carne e le sbarre rugose che conservano il mio sangue. Una scossa che percorre la via più breve e punta ad un muscolo in forza e in perpetuo battito. Sento bruciare, in un manto cromatico in rosso acceso, proprio quel muscolo che la noia emotiva e il tempo passato avevano sopito al pari di un accanimento anestetico. Pulsa e sento forte quel pugno tra i bottoni del pigiama, lievemente mi cingo con la mano il cappotto come se dovessi proteggermi da qualche schianto energetico pronto a fuoriuscire. Deglutisco, respiro, appannando buffamente gli occhiali da sole, che in fretta tolgo, se non altro per comprendere se tutto questo rapido accadimento non stesse scontando sogni e sonno lasciati a metà, giacenti tra le lenzuola di casa. Tutto vero, così sembra.

Mi guardi, adesso. E la cortina di sbadigli e aria fredda che mi circondava a distanza di pochi secondi, cade piano sotto di me, per far passare quella scossa complice che viaggia a mezz’asta in quello spazio di mezzo che ci divide.

“Signorina desidera?” “Si scusi, allora un cornetto appena sfornato ai frutti di bosco e un doppio caffè, grazie”. Semplice, diretta, in perfetta interpretazione di sicurezza e fermezza nonostante riesca a scrutare le tue mani sul bancone, la tua sagoma dritta, il viso inclinato. Non riesco a capire se il tuo sguardo incrocia le mie guance bianche e confuse, certamente invase dal consueto imbarazzo che mi coglie nei momenti in cui non avevo previsto, nell’attimo prima, lo stupore adesso mi afferra.

Adoro quando sento la risata risalire sulle labbra, quella risata al sapor di timidezza e insicurezza, di lieve nervosismo e voglia di recitare la migliore parte della tua vita. Alla ricerca di scorte di sensualità attiva e gesti da donna vissuta, apparentemente abituata a quel tipo di situazioni, incerta se  girare il corpo ed essere in grado anche di lanciarti un occhio complice e incisivo.

Ma senza lasciare che questo pensiero possa costruirsi nella mia lista d’intenti Tu avevi inteso tutto quello che era necessario, e agisci nel modo più leggero e concreto che avessi mai potuto chiedere, in quella briciola di secondo. Ti avvicini, piano.

Sento il tuo respiro, filtrato da quel calmo sospiro d’inverno, mischiato ad aria di freddo e fumo di Marlboro, che passa sulla mia spalla e avvolge il mio collo. Sento il solletico che mi provocano i tuoi ciuffi ribelli e liberi e in pungente passo svelto a sfiorare il mio orecchio destro.

La mia coda dell’occhio a pochi millimetri dal nero profondo dei tuoi, aperti su di me, spalancati e carichi. Il muscolo sotto il pigiama funge da grandangolo sull’anima e fotografa ogni angolo di amore che con movenze in adagio, inizia a far sentire la sua calda presenza.

Un amore che si traveste come se fosse la prima occasione, e in fondo un po’ lo è, che agisce fresco e spontaneo, senza criminali inibizioni ma guidato solo da splendidi impulsi selvatici. Con il suo vestito buono risale la scala della mia gola secca e ritratta, marciando con le gambe di miele e il corpo di petali di ciliegio.

Il tracciare la superba linea di quel momento di sensazioni a vincere su ogni banale movimento che si svolge intorno a noi, a me e a te, incastonati sul marmo di quel bancone, stretti in uno spazio invisibile, silenziosi e ansimanti, come prigionieri consapevoli e felici dentro una dimensione non terrena, non nostra, al di là del pianeta su cui poggiamo le nostre gravità.

Quasi altrove, in un posto non ben definito, che conosciamo bene e che ricreiamo a volte.

Io e te, in questi anfratti inconsueti in cui fingiamo di non sapere niente l’uno dell’altra, come se entrambi scrutassimo per la prima volta le nostre pelli in cambio di un’urgente necessità di risentirci vivi, al netto di quotidiano amore intercorso nei nostri giorni.

E il guardarsi poco fa, in quell’atmosfera di colpo inusuale e nuova, come due scippatori delle rispettive memorie, per seguire il nostro gioco preferito, e cioè ritrovare quel pathos che spesso va in perdita dopo tanto amarsi.

Il voler stare così, muti e soli in mezzo alla gente, non curanti di quei cucchiaini sbattuti e il rumore di macchine del bar in trepido fischio, come due bambini che imitano scene da recita per il puro gusto di rigodere dei ricordi più belli. Così io, così tu, a reinventarci quello che conta tra noi, per ricaricare batterie per la folle paura di non sapere più come si fa, a piacersi.

E mi basta, almeno per una manciata di stupido tempo, sapere che tu hai colto per primo la mia voglia di mangiare quell’odore poco prima catturato e desiderato, e sei sceso da casa senza fare rumore, chiudendoti nel tuo trench, a piccoli passi per le scale, non una parola, con in mano il mio desiderio da me non ancora espresso.

E si che mi basta, realizzare tutto ciò, mentre infilo la mia mano nella tua tasca per giocare con le tue carte arrotolate dentro, intanto che aspetto che il tuo braccio avvolga le mie spalle, mentre maciniamo un contatto necessario, alla ricerca di un’intimità precisa, la testa sul tuo petto, la tua mano tra i miei capelli, al netto di noi.

Vale questo, contro ogni forma di banale progredire, di scontata formalità, di coppia a tutti i costi, di terribile senso di noia. Vale fingere di amarci per la prima volta, simulando il primo giorno, ritrovando la stessa passione e la stessa scintilla che ci ha portati fin qui. Valgono sempre i tuoi occhi e la mia timidezza camuffata da guerra, vale ancora il tuo profumo e la mia voglia di dolce, valgono i nostri abbracci infiniti nell’incuranza degli altrui sguardi. Vale questo modo sciocco di sentirci vivi in un mare di stucchevole bisogno di moderna concezione di coppia.

Vale la pena prenderti e tirarti di colpo, fare la bambina viziata e voler tornare su, affinchè possa tenerti solo io, perché sono già stanca di quel gioco e sento di voler nuovamente guardarti da sotto il cuscino, senza farmi scorgere, come piace a te.

Il cornetto freddato non ha più importanza, non lo aveva già allora, forse. Il tuo gesto che si impone su tutto e mi rende gelosa persino del barista, inconsapevole complice di quel film ben riuscito, dentro un alba invernale.

Bello, ancora una volta, essere pervasa da te come se fossi uno sconosciuto, restaurare quell’emozione per non levarne l’autentica perfezione.

Bello, simulare di trovarti come è realmente accaduto, quasi a non crederci, quasi a continuare a chiedersi, che sia successo proprio a me, di continuare così, senza stancarsi mai, di innamorarmi ancora, al netto di te.

Vittoria Favaron All rights reserved


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :