Passando in rassegna le singole tracce, l’apertura spetta a Waiting for Margaux, un brano dalle sonorità a metà strada tra Elton John e Toto in cui la fa da padrone proprio il piano di Cox, presente fin dal riff iniziale e che ha il suo culmine in un gradevole assolo; la Margaux menzionata è una donna dalla personalità complessa che conduce una vita misteriosa e piena di segreti; nonostante ciò la voce narrante del pezzo ha una relazione con lei, un legame dovuto anche al fatto che la donna è una grande intenditrice di vino. Il secondo episodio dell’opera è Tasting History. Qui si instaura un metaforico parallelismo tra un padre, collezionista di vini antichi risalenti al XVI secolo che ogni venerdì, osservando una sorta di rituale, ne assaggia uno, e la figlia archeologa che sta lavorando tra le Piramidi egizie; in modo diverso, entrambi hanno la possibilità di “assaggiare la storia”. Musicalmente la composizione ha delle tinte blues ed è arricchita da numerosi assoli dell’elettrica di Juber. La title-track Down in the Cellars (con l’aggiunta della “s” finale) ha come unici strumenti soltanto le chitarre acustiche di Stewart e Juber che si intrecciano per formare una melodia fragile e delicata, rimandando agli echi folk dei primissimi dischi. Lo spunto reale da cui si parte sono le famose cantine della famiglia Chave, fondate 500 anni fa, ma la riflessione più generale che ne scaturisce riguarda una professione che si tramanda di generazione in generazione e, ancora una volta, si ribadisce il concetto che una bottiglia di vino d’annata rappresenta un vero e proprio pezzo di storia. La successiva Turning it into Water è una delle canzoni più “pop” dell’album e sicuramente un’ottima candidata al ruolo di singolo radiofonico se ce ne fosse stato uno; gli arrangiamenti dall’incedere beatlesiano comprendono il quartetto d’archi, che nelle parti solistiche ricordano la famosa sezione orchestrale di “Year of the Cat”. Paragone incoraggiato anche dal solo di elettrica. La storia raccontata è tragicomica: l’ennesimo collezionista ha scoperto che la sua partner gli ha annacquato tutte le sue bottiglie per qualche imprecisato motivo (forse lei beveva il vino e lo sostituiva con l’acqua pensando che il compagno non se ne sarebbe mai accorto?), e adesso il vino “sa di pioggia”. L’unico brano di questo lavoro non scritto da Al Stewart è Soho, cover di un successo scritto da Bert Jansch e dedicato al famoso quartiere londinese – da non confondersi con “Soho (Needless To Say)” incisa da Stewart nel 1973. Anche qui la fanno da padrone le chitarre acustiche e anche in questo caso ritornano alla mente i pezzi folk degli esordi; il testo descrive gli scenari tipici del quartiere, tra cui ovviamente non può mancare il vino rosso che scorre dal bicchiere direttamente nelle vene.
La traccia che segue è quella più lunga del concept con i suoi sei minuti: The Night that the Band got the Wine, un vero e proprio cortometraggio in musica in cui si narra della strana festa di compleanno di un miliardario, che viene disertata a causa di un terremoto; al festeggiato dunque non resta che offrire il prezioso nettare a disposizione alla cover band ingaggiata per intrattenere gli ospiti e da qui parte una serie di eventi epifanici che costringeranno i membri del gruppo a vedere la loro professione in un’ottica completamente diversa e il miliardario a sparire dalla circolazione, forse a spassarsela in una spiaggia lontana. Musicalmente la melodia deve molto ai “FabFour” ma si presenta purtroppo ripetitiva in quanto per seguire la narrazione la struttura consiste di sole strofe e di nessun ritornello, con solo gli assoli strumentali a rompere la monotonia. Millie Brown è un pezzo molto allegro e orecchiabile con un retrogusto anni ‘30 che si avvale, ancora una volta, di una sezione d’archi e racconta della storia d’amore tra un uomo ed una ragazza un po’ misteriosa, che lavora in un pub e serve indovinate quale tipo di bevanda… Under a Winestained Moon vede Al Stewart di nuovo alle prese con la Storia, che è un tema ricorrente di molti altri suoi brani. Un muro di chitarre acustiche con eco applicato e un assolo pinkfloydiano ci conducono tra Socrate e gli eroi greci, ed ovviamente anche a quei tempi si apprezzava molto il frutto della vite. Franklin’s Table è probabilmente la composizione più riuscita; sempre la Storia la fa da padrona: il protagonista della traccia descrive quanto sia contento di partecipare alle cene organizzate da Benjamin Franklin alla corte di Francia, in cui lo scienziato allieta gli ospiti con dell’ottimo vino e spiegando le sue bizzarre invenzioni; l’atmosfera settecentesca è resa benissimo anche dagli arrangiamenti, pianoforte e sezioni d’archi, e se le strofe sembrano assumere un andamento drammatico, il ritornello è invece molto fresco ed allegro. E poi, quante canzoni conoscete che parlano di “odometri”?
House of Clocks ha un’atmosfera simil-brasiliana che ricorda un altro vecchio successo di Al, “Almost Lucy”. Un uomo che ha una vastissima collezione di orologi si chiede come mai la sua donna lo abbia lasciato e sia andata via senza spiegazioni… forse la risposta è tra le righe dello stesso brano, dato che come si capisce il bizzarro personaggio è abbastanza ossessionato dai suoi oggetti. Stavolta il vino viene solo citato saltuariamente e non costituisce un elemento essenziale dei fatti narrati. Ma si ritorna subito in argomento con Sergio, personaggio che, emigrato in California dopo la guerra, riparte da zero e compra un terreno per piantare una vigna; il finale ci racconta che dopo anni Sergio è riuscito a realizzare il suo sogno di diventare un importante produttore di vini riconosciuto a livello mondiale; il tutto è reso con una ballata che vede anche la fisarmonica come strumento aggiunto. E di nuovo la fisarmonica, stavolta suonata addirittura da Peter White, ex-partner artistico di Al diventato un quotato chitarrista in U.S.A., ritorna in un altro dei brani più allegri dell’album, Toutes les Etoiles, che ci porta nei monasteri francesi dove furono inventati i vini frizzanti; per rendere meglio l’atmosfera, Stewart ci delizia cantando il ritornello in lingua francese e con la voce sdoppiata, artificio che non ha mai usato spesso nella sua lunga carriera ma che probabilmente tiene in serbo solo per “occasioni speciali” (e supponiamo che l’invenzione dello champagne sia una di queste). Il disco si conclude con The Shiraz Shuffle, traccia per buona parte strumentale che mette ancora una volta in risalto le chitarre acustiche; il breve testo rende omaggio al vino australiano Shiraz (detto anche Syrah). Non si abbia l’impressione che questo lavoro possa venire apprezzato solo dagli esperti enologi! La musica, gli arrangiamenti e le esecuzioni contenute sono tutte di alta qualità e, pur richiamandosi a tratti agli anni ‘60 dei Beatles e agli anni ‘70 dello stesso Al Stewart, non suonano affatto datate e si inseriscono perfettamente in un tipo di musica elegante e raffinata, melodica e delicata, forse anche di nicchia, che l’autore persegue già dagli anni ‘90 e che tuttora propone, sia nei suoi concerti (in genere acustici, con una o due chitarre) sia negli sporadici album registrati in studio.
Per Approfondire
http://www.alstewart.com