Egli racconta di essere stato “forzato” all’ateismo dalla sua famiglia fin da quando era piccolo, come troppo spesso accade: «Sono cresciuto in una famiglia di atei convinti, figlio di ebrei non osservanti che mettevano la fede religiosa sullo stesso piano della fede in Babbo Natale. Mio padre era riuscito a far piangere mia sorella quando aveva tentato di estirpare dalla sua mente l’idea, nemmeno troppo radicata, che da qualche parte dell’universo si nascondesse un dio solitario. Aveva otto anni, a quell’epoca. Se i miei scoprivano che qualcuno, nella loro cerchia di conoscenze, covava segretamente un sentimento religioso, cominciavano a trattarlo con la commiserazione che in genere si riserva a chi soffre di una malattia degenerativa. Da quel momento, per loro, era impensabile ricominciare a prenderlo sul serio».
Maturando il suo ateismo è però andato in crisi, venendo tormentato dai dubbi, affiorati la prima volta ascoltando Bach. La conversione non è avvenuta, tuttavia ha capito che «dopo aver perso tutta una serie di pratiche e tradizioni che gli atei trovano insopportabili perché di quello che Nietzsche definiva “il cattivo odore della religione”, la società laica si è ingiustamente impoverita. Ormai il termine «moralità» ci fa paura, e al pensiero di ascoltare un sermone preferiamo darcela a gambe». Si è così voluto avvicinare al cristianesimo, alla cultura, all’arte, alla musica, ai riti cristiani, rimanendo però non credente.