Alan Berliner: memoria e identità sono il mio forte

Creato il 30 ottobre 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Si presenta al Taiwan Independent Documentary Film Festvial precisando che non si tratta di una Masterclass perché lui di “master” non ha proprio niente. Semmai, ha commesso più errori di quelli in platea, i quali hanno molti meno capelli grigi e rughe d’espressione del filmmaker che quest’oggi gli sta parlando. Quindi sì, quel che dice ha un senso e, soprattutto, è di grande incoraggiamento.

Un uomo alto e piazzato con origini europee che dagli anni Novanta lavora spinto da un interesse per il documentario di montaggio e il materiale di archivio. Si chiama Alan Berliner: nel cassetto un premio alla Berlinale del 1997, diverse partecipazioni al Sundance, e non ultimo il premio agli IDFA 2012 (Amsterdam International Documentary Film Festival, uno degli appuntamenti Europei più importanti in ambito documentaristico) per la sua opera più recente First Cousin Once Removed.

Certo, essere un documentaristica non ti porta sui grandi palcoscenici e magari di lui non avete mai sentito parlare; tuttavia, la sua è un’opera strutturata che segue un filo conduttore, che in ogni indagine, sebbene questa in apparenza banale, è capace di una scoperta mozzafiato, di trovare lo straordinario nell’ordinario, di affascinare lo spettatore. Ecco, questo è Alan Berliner.

Ha iniziato negli anni 80 con lavori brevi di composizione di filmati d’archivio, spesso famigliari. Un taglio sperimentale, una particolare dedizione alla traccia sonora che talvolta è ciò che trascina la semantica stessa del montaggio; un montaggio poi, che ci ricorda da una parte Dziga Vertov e dall’altra Fernando E. Solanas degli inizi. Sul finire del decennio si dedica più appassionatamente a reperti in 16 mm risalenti agli anni 20-50, che comporranno il suo lungometraggio d’esordio, The Family Album. A metà tra il documentario di montaggio e l’opera sperimentale, dove la colonna sonora gioca anch’essa buona parte della sperimentazione, sin da subito traspare il suo interesse per la ricostruzione critica e antropologica del passato e l’indagine delle radici. Non avrà alcun timore a percorrere questa strada anche negli anni successivi mettendo se stesso e la propria famiglia in gioco.

Ecco quindi che nascono due dei prodotti più interessanti, Intimate Stranger e Nobody’s business, che rappresentano rispettivamente una indagine sulla storia del proprio nonno paterno e sul passato così curiosamente fumoso del padre. Vita privata? No, storie universali e affascinati. La straordinaria capacità di Berliner di rendere questa normalità una eccellenza narrativa è il punto di forza della sua opera patriarcale binomia.

Joseph Cassuto, nonno paterno di Alan, ha vissuto tra l’America, l’Egitto e il Giappone a cavallo della Seconda Guerra Mondiale; probabilmente avrebbe potuto essere un commerciante come tanti altri, ma ha stipato casa di souvenirs da questi angoli del mondo, e soprattutto dalla misteriosa Asia, conservando dentro di sé una gran parte di quello stile di vita. Se non fosse stato per questo museo casalingo, preservato incolume dallo zio di Alan, il nipote non sarebbe riuscito ad andare a fondo della sua attività commerciale, dei suoi viaggi e delle sue scelte, e a presentarli come una straordinaria rivoluzione civile e umanitaria in epoca di stravolgimenti storici. Sorride intenerito al ricordo di quella busta nell’archivio del nonno che nascondeva 500 dollari: a conti fatti, la prima somma produttiva investita nel film. C’è un’affascinante connessione tra quelle scatole di ricordi che lo zio aveva miracolosamente conservato anche lunghi anni dopo la morte del padre e il racconto approfondito che il nipote presenta indagando ciascuna lettera, ciascuna fotografia, ogni singolo fotogramma delle pellicole trovate.

Quanto invece racconta, con spiritosa provocazione, a proposito del padre? Tutto quello che Oscar Berliner, un cocciuto e irriverente vecchietto che si regola il volume dell’amplifon di tanto in tanto, non ha alcun interesse a raccontare, a svelare alle insistenti domande che il figlio gli pone da dietro la camera. Probabilmente le parole più ripetute di questa intervista frontale, mescolata alle pellicole di famiglia in un montaggio di grande competenza e magia, sono “No” e “Non mi interessa”: un certo cinismo che descrive anche l’incredulità del padre di fronte all’esigenza del figlio di parlare di lui, che è solo una persona normale per la quale nessuno nutrirà mai interesse.

Eppure, a distanza di tempo, questo suo film è stato talmente apprezzato che certi spettatori hanno pensato di inviargli le condoglianze alla morte del padre. Una normalità che ha trovato la sua fama.

Tra il 2001 e il 2006 l’attenzione della sua ricerca si concentra su due temi che lo interessano più da vicino: ed ecco che la sua presenza in scena diventa più felicemente ingombrante. The Sweetest Sound si imbarca nell’incredibile impresa di raccogliere attorno ad un tavolo tutti gli Alan Berliner della terra. Pensavate di avere un nome unico e di essere originali? Ebbene Berliner approccia un lavoro sull’omonimia che è piuttosto una riflessione trasversale sull’identità, su il “chi ti credi di essere” e sulla flessibilità dei confini del proprio Io. Ci ride su, sovrappone le voci di quei 12 Alan Berliner che hanno risposto al suo appello, li canzona un po’ ma non troppo, e con un montaggio di immagini spiazzatamente semplici a commento della sua voce, ecco che trascorre un’ora a parlare di sé. O meglio, di Alan Berliner.

Altrettanto divertente Wide Awake dove invece è l’Alan insonne che combatte con la sua difficoltà di approcciare il sonno in un momento della propria vita pieno di cambiamenti (la nascita del figlio). Un viaggio nelle questioni dell’insonnia non prettamente scientifiche, piuttosto emotive e a tratti eccentrico-folli, dove lo spettatore ha anche l’opportunità di osservare da vicino l’immenso archivio del regista e i suoi ritmi di lavoro, quanto mai curiosi.

Eccoci così al suo film più recente, vincitore agli IDFA come si diceva, First Cousin Once Removed.

Si può parlare di Alzehimer in diverse maniere; si può fare di questa malattia logorante un dramma piagnoso oppure cercare anche nel lento spegnimento, un forma poetica: in questa direzione si muove il documentario, poiché d’altronde omaggia il protagonista stesso della vicenda, Edwin Honig. Poeta e traduttore stimato, si è spento nel 2011 dopo gli ultimi anni trascorsi nella lenta caduta nell’oblio della malattia; un percorso a ritroso nel tempo che Berliner documenta nell’intimità dell’abitazione di Honig, che ogni giorno gli riapre la porta con estrema sorpresa e incredulo ammutolimento.

L’operazione che il regista mette in piedi sembra talvolta assumere i tratti di una lotta contro la perdita della memoria – che per questo prolifico letterato equivale ad una perdita della identità stessa -; sembra voler sfidare il tempo e il problema, per mostrare come quelle riprese possano fissare per sempre e consegnare alla storia anche quello che è andato perso. D’altra parte, è capace di mettere in gioco tanto del passato dello scrittore portando entrambi i piani, quello umano e quello artistico, ad un critico confronto. Filmicamente, il regista ci riesce, assicurando al pubblico e al futuro, un candido omaggio al poeta; ma, umanamente, nulla può contro la nascosta forza brutale che si inghiotte i ricordi di quell’anziano che vediamo spegnersi seppure tristemente, ancora avvolto in quell’aria di poetica dignità e quasi fallimentare socialità.

 Dopo aver visionato i film di Berliner, da una parte, pare di conoscere questo sconosciuto abbastanza bene da poterci uscire a cena. Dall’altra, se ne esce pensando a quanti film uno potrebbe girare sulla propria famiglia. Non c’è inarrivabilità nella sua opera, in quel 4:3 sporcato da un digitale alle prime battute. Ecco perché questa umiltà artistica fa parte integrante del suo successo; ecco perché una Masterclass in sua presenza è una chiacchierata tra pari, tra filmmaker stagionati e filmmaker acerbi. Non capita spesso infatti di incontrare autori che ci tengano a mettere in chiaro che, dal canto loro, il talento non esiste: c’è piuttosto la perseveranza, il lavoro duro, talvolta certosino. Poiché anche una persona smart nulla può senza l’esercizio e la crescita successiva ai propri errori.

“Già, ho esperienza nel interessare gente comune: se posso fare un film su mio nonno – che non era il padrone di McDonalds, che non ha condotto una rivoluzione, che non era un grande musicista, che non ha fatto nulla di straordinario -, bè, indovina: anche tu lo puoi fare.”

 Rita Andreetti


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