di Melville Chater
Per la rivista National Geographic, febbraio 1931
Seconda parte
Link prima parte
I figli dell'aquila
Mentre stavamo legando... cioè, volevo dire, mentre spegnevamo il motore della macchina, un’aquila gigante ha fatto la sua comparsa nel cielo azzurro, che è anche il suo regno. La vista di questo nobile uccello ci ha fatti sentire veramente nell'Albania antica, nel paese dei figli dell'aquila. L'etimologia del nome “Shqipëtar” si perde nelle leggende delle tribù montanare balcaniche. La parola “shkep” significa roccia, e il nome “shqipëtar”, probabilmente, significa “abitanti delle rocce”. Ma Plutarco ci dà un'altra spiegazione molto interessante. L'antico biografo greco ci racconta che quando il re dell'Epiro, Pirro, fu paragonato dai suoi soldati ad un'aquila, lui rispose che erano le loro armi che gli mettevano le ali. Gli odierni albanesi vi diranno che sono gli abitanti più antichi del sud-est dell'Europa. In verità, la loro lingua e le loro usanze sono una dimostrazione viva di un'origine antichissima. Probabilmente, sono discendenti degli Illiri, i quali a loro volta erano discendenti dei Pelasgi. Finché l'archeologia non chiarirà alcuni aspetti oscuri della lingua albanese, i pareri dei filologi saranno discordanti. Una parte dei filologi crede che un terzo della lingua albanese provenga dalla lingua pelasgica. Altri ritengono che la lingua albanese derivi dalla lingua illirica e che non abbia nessun nesso e nessun collegamento con la lingua greca. Una terza categoria di filologi pensa, invece, che la lingua albanese sia la lingua più antica dell'Europa, la madre della lingua greca e latina. Platone ed Erodoto scrivono nelle loro opere che i Greci ereditarono la loro teogonia dai Pelasgi. Secondo gli studiosi, questa teoria dipende molto dal fatto che diversi nomi degli antichi dèi greci, come per esempio Zeus, Nemesis, Rea, possano spiegarsi con le (o, addirittura, avere origini dalle) parole albanesi “ZË” (voce), “NËMË” (maledire), “RE” (nuvola). Gli Albanesi potrebbero veramente discendere dagli Illiri. Come rami di un enorme albero, gli Illiri antichi erano estesi in Epiro, nella Macedonia nord-occidentale e nella maggior parte dei territori della ex Jugoslavia. Gradualmente, gli Illiri cominciarono a perdere territori a causa delle spedizioni di Filippo II di Macedonia e di suo figlio, il famoso Alessandro Magno. Nei tempi più remoti, dopo che i Romani ebbero piegato Cartagine e cominciato ad estendere il loro interesse verso l'Adriatico, l’Illiria era divisa in tre imperi. Gli Illiri e i loro territori furono sottomessi prima dai Goti e poi dai Bulgari. Le tribù illiriche degli Epiroti e dei Macedoni emigrarono e misero radici nel territorio che oggi si chiama Albania. L'unica tribù che è rimasta discendente pura della grande razza illirica è quella degli Albanesi.
Dopo essere passati per Pëmet, Këlcyrë e Tepeleni, dove abbiamo visto i ruderi del castello del temuto Ali Pasha, al tramonto siamo arrivati ad Argirocastro.
Uomo con vestito tradizionale di Argirocastro (foto: Luigi Pellerano).
I viaggiatori dormono dove e come possono
Le locande albanesi sono quasi primitive. I viaggiatori, di solito, cercano di evitarle, e dormono dove e come possono. Ad Argirocastro abbiamo trovato una moschea circondata da cipressi, e lì abbiamo sperimentato l'ospitalità dei dervishi bektashi. Per molti anni l'impero ottomano ha dominato l'Albania, causando la conversione all'Islam nell'Albania del sud e in quella centrale. I chierici cristiani, ortodossi e cattolici, non predicavano nella lingua del posto, per cui il popolo non ne capiva bene i dogmi e si definiva cristiano soltanto per tradizione.
Una giovane coppia con i vestiti tradizionali (foto: Luigi Pellerano).
Al contrario, gli albanesi abbracciarono l'Islam molto facilmente, perché questa religione dava loro sicurezza politica e protezione. Il risultato fu che due terzi degli 883.000 cittadini albanesi erano musulmani, ed i restanti erano ortodossi o cattolici. L'ospitalità dei dervisci bektashi e del loro capo è stata indimenticabile. In una stanza fredda senza mobili, padre Sulejman, con la sua barba lunga, con i suoi occhi che brillavano, con la sua tunica bianca e il suo gilè verde, stava seduto con le gambe incrociate sopra pesanti tappeti tenendo in mano il Corano. I suoi modi gentili portavano a pensare che fosse l'educazione in persona. Ci siamo salutati e gli abbiamo fatto i complimenti, ed infine abbiamo bevuto un forte caffè turco. Un valletto gobbo, con un naso enorme, come fosse un personaggio uscito dai racconti delle “Mille e una notte”, si avvicinava inchinandosi ogni volta che padre Sulejman diceva: “Fratello mio!” Abbiamo discusso per molte ore sulla tolleranza religiosa e sulle verità che sono comuni a tutte le religioni. Lui ci ha portato come esempio un antico detto: “Quello che divide le religioni del mondo è soltanto il fatto che l'uomo crede di sapere. Ciò che unisce tutti gli uomini, è quello che ancora non è stato trovato, il sapere che tutto il mondo cerca!” In seguito, abbiamo cenato su un enorme disco di rame, attorno al quale ci siamo seduti tutti con le gambe incrociate sopra un colossale tappeto. Il valletto delle “Mille e una notte”, dopo cena, ci ha accompagnati, facendo luce con una candela, in due stanze che erano state preparate apposta per noi. Musulmani o cristiani che fossero i viaggiatori che cercavano riparo durante la notte, trovavano sempre una camera pulita e ospitale. I quattro angeli che si trovavano sul capezzale del letto ci hanno donato un sonno dolce e rilassante, nel silenzio sacrale della moschea. La mattina successiva abbiamo scoperto che non dovevamo niente di niente ai dervisci. Proprio niente, nemmeno un centesimo per la cena e neanche per il pernottamento. L'ospitalità e la tolleranza sono due principi fondamentali del dogma dei bektashi. “È un male quando qualcuno è pieno mentre la moltitudine è vuota”, dice una delle loro massime. Un'altra invece dice: “È male quando qualcuno si vanta della sua sapienza negando quella degli altri!”
Padre Sulejman ci ha dato la sua benedizione. Poi lo abbiamo lasciato meditare su questioni religiose, con lo sguardo perso sulle montagne. Ci è venuto in mente un verso della Bibbia. I Salmi ebraici e le preghiere dei dervisci musulmani sono molto diversi fra loro? Trattano argomenti differenti? Quel giorno, camminando verso il mare, abbiamo visto enormi piantagioni di olivi. Poco prima di arrivare a Saranda, abbiamo notato una casupola ricoperta di foglie, e costruita con piccoli tronchi dell'altezza di circa quattro metri. Salendo su una scala, abbiamo sorpreso l'unico “abitante” della casupola. Il suo lavoro, come lui stesso ci ha spiegato in un dialetto inglese del Massachusetts, che aveva imparato quando lavorava lì in un calzaturificio, consisteva nel guardare le piantagioni di olivi da quel “nido aereo”.
Uomini con vestiti tradizionali (foto: Luigi Pellerano).
Sei anni di galera per omicidio.
Successivamente, il guardiano delle piantagioni ha iniziato a raccontarci i segreti della sua vita, confessandoci che questo lavoro da lui scelto, in realtà, era l'unico sicuro per uno come lui, che era appena uscito dalla galera. “Sapete” ci disse “ho fatto sei anni di galera soltanto perché mi sono comportato male nei confronti di un uomo!” “Sei anni perché hai agito senza pensarci?” abbiamo domandato noi.
“Sì.” ci ha risposto “Ho agito senza pensare ed ho tirato fuori il coltello. Ora che sono fuori dal carcere, il fratello della vedova vuole vendicarsi di me.”
Viaggiando verso le coste del mar Adriatico, passando per il porto di Saranda, abbiamo seguito una strada impervia che andava in direzione nord. La strada passava su montagne alte oltre 1500 metri. Sotto di noi guardavamo alberi di olivo, numerosissimi alberi di pino; era una vista meravigliosa, come se osservassimo dall'aereo. Dopo pochi minuti ci siamo ritrovati in una baia naturale completamente vergine, dove la mano dell'uomo non era ancora arrivata. In seguito ci siamo fermati per mangiare vicino alla strada, accanto a degli alberi di olivo, presso un paese molto piccolo, dalle case con il tetto rosso, che pareva dormire sotto la luce calda di un pomeriggio di giugno.
Ed ecco finalmente il tramonto, che avevamo aspettato tanto, quasi con impazienza. Gli abitanti del villaggio si raccoglievano vicino alle fontane per rinfrescarsi, le donne riempivano le giare con l'acqua fresca e ritornavano nell’abitato con passo spedito, parlando l'una con l'altra.
Traduzione dall’albanese di Elton Varfi