di Marco Grassano
“Che vita mai, che gioia senza Afrodite d’oro?
Ch’io sia morto quando più non mi stiano a cuore
l’amore segreto, i dolci doni e il letto:
questi sono i fiori della giovinezza, desiderabili
per gli uomini e le donne.”
(Mimnermo)
Albert Camus (da Wikipedia)
Albert Camus apre il suo saggio Il mito di Sisifo con questa riflessione: “Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto – se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie – viene dopo. Questi sono giochi: prima bisogna rispondere”. E un po’ più avanti aggiunge: “Giudico dunque che quella sul senso della vita è la più urgente delle domande. Come rispondervi? Per tutti i problemi essenziali – intendo con ciò quelli che rischiano di far morire o quelli che moltiplicano la passione di vivere – non vi sono probabilmente che due metodi di pensiero, quello di La Palisse e quello di Don Chisciotte. Soltanto l’equilibrio tra evidenza e lirismo può permetterci di accedere nello stesso tempo alla commozione e alla chiarezza”.
Una risposta che pretenda di avere una qualche attendibilità, o solidità, non può essere lasciata solo alla commozione o al lirismo, ossia, in pratica, all’umoralità del momento, magari alla mera casualità. Georges Simenon parla, nelle sue Memorie, di “quella benedetta tenerezza, specialmente, che tutti sogniamo e di cui abbiamo un bisogno profondo, radicato nella carne, e che, non essendo quasi mai raggiunta e goduta, crea tutto un universo di scontenti, di instabili, di automi e di infelici”. Ecco allora che, se ci si fida della sola commozione si è tentati, per esempio, di rispondere “sì” al quesito il giorno in cui si riceve un gesto o un sorriso di tenerezza da una persona alla quale si tiene, e “no” il giorno in cui, per una qualche ragione casuale, non lo si riceve, o si ha la sensazione, magari erronea, di un’indifferenza affettiva.
Bisogna quindi ricorrere all’evidenza, alla chiarezza: insomma, a un sistema, se possibile, scientifico. E lo si può fare adattando al caso di specie un criterio utilizzato per la valutazione della convenienza, in termini di resa, di un impianto per la produzione di energia. Tale criterio viene comunemente indicato con l’acronimo inglese EROEI (o EROI), Energy Returned On Energy Invested (o Energy Return On Investment) cioè, in italiano, Energia Ricavata Su Energia Consumata. Matematicamente, è il rapporto tra l’energia ricavata e tutta l’energia spesa per arrivare al suo ottenimento, dove per energia ricavata si intende ogni forma di energia che sia effettivamente usabile, mentre nel computo dell’energia spesa si include tutta l’energia (quella a carico umano: non, per esempio, la luce solare che interviene nella fotosintesi clorofilliana…) impiegata, anche in tempi diversi, per la produzione: dall’ottenimento e trasporto della fonte di energia (es. carbone, petrolio, biomassa vegetale…) alla costruzione (e poi al decommissioning, o smantellamento) dell’impianto. Mi è toccato, professionalmente, partecipare alla valutazione di impatto ambientale di un impianto di bioetanolo; l’esito del procedimento fu negativo anche perché gli scarti vegetali da trattare provenivano in parte dal Brasile, e si ritenne che un’opera come quella, per essere ritenuta complessivamente sostenibile (ci sono anche costi economici e costi ambientali non computati in questo indice, ma che nondimeno esistono…), avrebbe dovuto avere un EROEI pari almeno a 2, mentre non lo aveva affatto.
Mi rendo conto che il ricondurre la vita a una centrale energetica può sembrare una forzatura (ma d’altronde, cosa sono i mitocondri se non le centraline energetiche delle cellule?). Tuttavia, un buon modo per dare una risposta valida all’interrogativo camusiano potrebbe essere quello di valutare la “giustificazione” di una vita ponderando non l’energia ottenuta sull’energia spesa, bensì il beneficio sul disagio. Ecco, potremmo definirlo un indice BAOIP (Benefit Achieved On Inconvenience Produced), ossia beneficio ottenuto (per sé e per gli altri) con quel che si fa nella vita sul disagio prodotto (a sé e agli altri) per il fatto di esistere e di fare. Non pretendiamo troppo, per carità, come per il bioetanolo di cui sopra: ci si accontenta qui, come giustificazione, di un indice pari a 1, ossia almeno non deficitario.
Un impianto ha una fase iniziale in cui non produce ancora energia ma ne richiede per essere realizzato, e una fase finale in cui non produce più energia ma ne richiede per essere smantellato: ragion per cui, durante la fase (intermedia) attiva, deve avere un gap, o divario, tra la quantità di energia che produce e la quantità di energia che richiede per funzionare tale da coprire, per il calcolo dell’EROEI, anche le due fasi (iniziale e terminale) passive. Allo stesso modo, la vita ha una fase iniziale in cui non si è ancora in grado di agire per ottenere benefici ma si provoca disagio, e una fase finale in cui non si è più in grado di agire per ottenere benefici ma ugualmente si provoca disagio (nei casi fortunati, quest’ultimo periodo è molto breve), per cui, per poter rispondere affermativamente a Camus, nella fase intermedia e attiva della vita ci deve essere un divario tra il beneficio ottenuto e il disagio provocato tale da coprire le fasi passive dell’inizio e della fine.
Se nella fase intermedia il beneficio è superiore solo di pochissimo (o uguale, o addirittura inferiore) al disagio, e questo per periodi di tempo prolungati, l’indice BAOIP complessivo si configura verosimilmente come deficitario (anche se un conteggio vero può essere fatto solo alla fine: “I più belli dei nostri giorni / non li abbiamo ancora vissuti” scriveva, forse illudendosi, Nazim Hikmet…) e quindi la risposta al famoso interrogativo è “no”.
da Wikipedia
Personalmente, sulla base di tali considerazioni, cerco il più possibile di darmi da fare per aiutare chi ne ha bisogno e quindi far ottenere ad altri i benefici derivanti dalla mia attività, in modo da compensare lo (spesso) scarso beneficio personale (l’altro elemento che sta al numeratore della frazione) e soprattutto il disagio (che sta invece al denominatore).
Mi rendo conto che a volte questo può non essere sufficiente, ahimé, ma più di così non mi è umanamente possibile fare… Ecco, mi ci vorrebbero dei superpoteri: a quel punto, però, il discorso cambierebbe radicalmente – non più Camus, ma l’Uomo Ragno!