Alberto Rossi, “Nonsense e Popular Music” (MMC Edizioni 2014): capitolo II, 4/4

Creato il 14 gennaio 2015 da Criticaimpura @CriticaImpura

Alberto Rossi, “Non sense e popular music”, MMC Edizioni 2014

Pubblichiamo per intero per gentile concessione dell’Autore, in quattro puntate, il secondo capitolo del saggio musicologico “Nonsense e Popular Music” di Alberto Rossi uscito nel 2014 per la MMC Edizioni. Ecco la quarta e ultima parte.

DI ALBERTO ROSSI

2.4 Problemi metodologici

Parlare seriamente di testi musicali porta con sé dei problemi di non poco conto, tutti riconducibili ad un fattore estremamente scoraggiante: gli studi autorevoli nel campo sono quasi del tutto inesistenti. La musicologia, che ormai da più di tre decenni si occupa in modo approfondito di popular music, ha sempre riservato ai testi uno spazio del tutto marginale, privilegiando l’aspetto prettamente musicale, come probabilmente è giusto che sia. Forse solo il cantautorato è riuscito a godere di un trattamento migliore dell’apparato critico, ma è un trattamento migliore solo di facciata, tanto che neppure quei critici che considerano erroneamente i testi dei migliori cantautori come poesie in musica hanno in realtà scritto qualcosa di significativo. Paradossalmente, quegli esperti che, tanto per fare un esempio, considerano De André come il più grande poeta italiano del XX secolo – e non sono pochi – non si sono mai soffermati sui suoi testi in modo da poter offrire un’analisi critica soddisfacente.

Esiste, è vero, un buon numero di volumi che parlano dei testi di alcuni musicisti, ma praticamente tutti questi testi si portano appresso due difetti che parrebbero congeniti e che si spera possano essere sanati nel giro di poco. In primo luogo, quasi mai questi volumi sono redatti da studiosi esperti e preparati; gli autori sono perlopiù fan accaniti di determinati artisti o generi, piccoli tuttologi un po’ rustici (spesso gestori di fanzine, forum o blog dedicati a quegli stessi artisti di cui sono grandi fan) che però non possiedono gli strumenti indispensabili per costruire un’analisi di qualità. Secondariamente, esiste un difetto connaturato a tutti gli studi sulla popular music, ossia che le librerie debordano di volumi dedicati sempre ai soliti nomi noti: sui Beatles, i Pink Floyd e i Rolling Stones, per esempio, sono state pubblicate decine di libri, mentre gli anni ’90 ancora soffrono di una radicata indifferenza (con l’eccezione degli studi sul grunge, peraltro a mio avviso il meno interessante dei grandi generi di quel decennio). A questo si aggiunga che la letteratura musicale è piagata da un insostenibile ritardo cronico, per cui gli artisti dell’ultima generazione non vengono mai trattati in modo adeguato1 e l’ultimo decennio sembra non esistere affatto. Se si vuole cercare una critica degli ultimi vent’anni in musica, o dei decenni precedenti che non riguardi solo le celebrità mainstream ma che vada a occuparsi anche delle scene alternative e underground, le uniche fonti reperibili sono gli articoli delle riviste specializzate, articoli che però consistono soprattutto di recensioni, concentrandosi solo molto di rado sui testi e in genere solo per ragionare sulle tematiche affrontate senza offrire un maggiore approfondimento di natura retorica.

Un’ulteriore difficoltà, invero inaspettata, è stata quella della reperibilità delle fonti primarie. A volte – per fortuna non molto spesso – non solo non esistono punti di partenza validi per un’analisi testuale, ma addirittura non si riescono a trovare gli stessi testi desiderati neanche dopo approfondite ricerche sulla rete2; in questi casi ci si è arrangiati come si poteva, cercando di reperire il materiale contattando i fan di quegli sfortunati musicisti dimenticati anche da internet tramite forum e fanzine, a cui è dovuto per forza di cose seguire un attento ascolto con i testi sottomano per evitare che errori di battitura o errate comprensioni entrassero nel corpus dei testi utilizzato in questo studio.

Date queste premesse, si possono capire le difficoltà in cui inevitabilmente ci si imbatte di fronte ad un lavoro di questo tipo. La speranza è che in futuro si possano finalmente vedere sempre più indagini riguardanti il lato testuale della popular music in modo da poter approfondire anche questo campo finora poco esplorato3 e soprattutto da mettere una volta per tutte a tacere le osservazioni aprioristiche sulla “poeticità” dei testi musicali.

L’obiettivo del presente studio, dunque, non è solo quello di sviscerare i testi di quei musicisti popular che, a partire dalla seconda metà degli anni ’60, si sono serviti delle caratteristiche del nonsense letterario, ma anche cercare di comprendere come il nonsense venga sfruttato in quanto dispositivo retorico che può avere valore distinto in base al contesto linguistico in cui si trova. Si intende, di conseguenza, voler fornire un’interpretazione del possibile significato che ogni singolo testo veicola e da lì capire gli eventuali punti in comune e quelli divergenti tra i diversi artisti, ma anche tra le diverse scene e i diversi periodi. Ci si limiterà in ogni caso ai soli testi in lingua inglese, fondamentalmente per due motivi: il primo è che il nonsense, pur essendo possibile in tutte le lingue, trova nell’inglese uno sbocco privilegiato per via di alcune caratteristiche formali della lingua (l’altissima presenza di lessico polisemico e di compounds4 e la teorica attuabilità dei garden paths5, per esempio); il secondo motivo è che la popular music è da sempre un genere prevalentemente anglofono e che trova le sue principali fonti di produzione negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Tanto è vero che capita molto di frequente che musicisti provenienti da paesi non anglofoni cantino in inglese, mentre è rarissimo che avvenga il processo inverso, ovvero che un gruppo proveniente da un paese di origine anglofona canti in un’altra lingua6

1Anzi, verrebbe da dire che non vengono trattati proprio. L’unico lavoro di buon livello dedicato alla musica degli anni 2000 di mia conoscenza è Retromania. Musica, cultura pop, e la nostra ossessione per il passato (Reynolds, 2011), libro con cui peraltro mi trovo quasi totalmente in disaccordo.

2Non cito neanche i libretti dei dischi, visto che ormai le etichette discografiche sembrano essersi adagiate nell’offrire confezioni mediocri, quasi sempre con libretti ridotti all’osso e senza testi, né immagini, né altro che possa stuzzicare la curiosità del potenziale acquirente. Atteggiamento ridicolo se si pensa alle loro pose scandalizzate quando parlano del file-sharing e degli altri sistemi per accaparrarsi gratuitamente la musica. Si chiedano come mai non si comprano più dischi.

3Campo che, ripeto, rimane secondario rispetto alla musica in se stessa, ma non essendo da essa del tutto scindibile né prescindibile risulta fondamentale per comprendere un’opera musicale.

4In linguistica un compound è un lessema che consiste dell’unione di due o più parole tema.

5Una garden-path sentence è una frase formalmente corretta ma che spinge inizialmente il lettore a interpretarla in un modo che si rivelerà in seguito scorretto.

6L’unico esempio da me conosciuto sono i londinesi Stereolab, di cui buona parte del materiale è in lingua francese, ma che sono in questo aiutati dalle origini della cantante, Lætitia Sadier. Per il resto, questo può avvenire in casi isolati (si pensi al portoghese di Foi na Cruz di Nick Cave; al secondo album delle Electrelane, The Power Out, che contiene canzoni in francese, spagnolo e tedesco; allo spagnolo di Dada Was Here dei Soft Machine) e mai in maniera programmatica.


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