Il Verdi di Alberto Savinio non è, insomma, un capitolo a sé di uno scrittore e pittore appassionato di musica e forte di studi musicali serissimi, compositore egli stesso. I pezzi dedicati a Giuseppe Verdi - perlopiù recensioni - sono stati raggruppati in un piccolo corpus unitario che, nell'edizione Einaudi - quella che io ho tra le mani - va da p. 140 a p. 163. A questi scritti (ricordiamolo: indipendenti in origine), per avere un panorama più organico del Verdi di Savinio, è bene aggiungere il capitolo Verdi Uomo Quercia di quel libro straordinario che è Narrate, uomini, la vostra storia. Si tratta di un album di ritratti esemplari (dei quali, forse, il più suggestivo - e non è un caso - è quello dedicato alla danzatrice Isadora Duncan) e il paesanotto delle Roncole vi figura in una decina di auree pagine, terragne e sonore, in buona e varia compagnia tra l'intellettuale e poeta rivoluzionario greco Lorenzo Mavilis e il torero andaluso Cayetano Bienvenida. Questo per dire che Verdi rappresenta per Alberto Savinio una voce tra le altre in un mondo organico e polifonico e l'artista non gli accorda una preferenza tematica pregiudiziale.
Anche a voler evitare il confronto con Wagner, topos delle tifoserie europee tra '800 e '900, è nel capitoletto dedicato a L'interpretazione di Verdi - attraverso il fatidico nemico - che abbiamo un quadro più esatto di quel che cerchiamo qui. Wagner vi appare qui come uno stratega, un pianificatore delle emozioni che sommergerebbero il pubblico senza pietà con la forza propulsiva di un bel fiume nordico, di una cascata. Per conto suo, invece, un'opera di Verdi è un fiume torrenziale, in balia delle piogge invernali, dell'arsura estiva e delle secche: è allo spettatore che tocca ritrovare la continuità in una partitura che sembra accendersi in mille occasioni musicali superbe, ciascuna delle quali è nuova e costringe a ripensare il brano e il suo contesto.
Il nostro padre melodico, lo si legge quasi con un sobbalzo, è un musicista freddo, nel senso di una passione che cede il posto all'intelligenza necessaria a interpretarlo, a capirlo, a farsi un'idea autonoma delle sue opere. Come altrove, lo spettatore viene invitato a non lasciarsi trapassare dalla musica, ma essere sempre protagonista del momento della fruizione. L'essere della musica un'estranea cosa, una Non-Mai-Conoscibile può forse mettere fuori gioco un pubblico impreparato o ignaro, ma è tale da richiedere un vero e proprio atto cooperativo, e guai a esaurirsi nella mera ricezione. L'insistenza su questo punto proprio per Verdi, autore popolare quant'altri mai (e Savinio pone sempre quest'aggettivo tra virgolette), fa pensare e forse va messa in relazione con quanto dice l'autore sulla Traviata (la sua Tristana, ma anche opera più commovente nel ricordo che nel presente): la tragedia di Violetta Valéry ci guadagnerebbe di più da un organetto di strada (macinino dei ricordi), dal contatto diretto e immediato con la tristezza cittadina (sono melodie cittadine, incapaci di varcare la cinta daziaria), sì, ma anche dalla spersonalizzazione dei personaggi a favore di un teatro di marionette.
Verdi, pur nella sua ignoranza del vero Dio, è patetico, ossia oscuramente tormentato da questo ignorare, e degno perciò del Nobile Castello. E questo suo patos, questo suo calore senza oggetto, questo suo grido senza eco, queste sue domande senza risposta hanno lo stupore lucido, la tragica atonicità, la spaventosa inespressione delle nature morte metafisiche [...]. Badiamo alle confusioni. È questo tessuto metafisico che, per quanto insospettato in lui, ha salvato Verdi dal povero, dal triste destino dei musici "soltanto" popolari; che lo fa degno di scoperte e riscoperte, che consente di passeggiare in quella parte della sua opera, dai classificatori definita "più verdiana", con la curiosità, con l'affetto, con lo stupore con cui si visita un acquario o un museo di storia naturale. (Scatola sonora, p. 155)
Savinio, che pure considera Il Trovatore come il capolavoro di Verdi (in nessun'altra delle tante sue opere l'ispirazione è così alta), e vi ritrova momenti di assoluta verticalità (intesa quale audacia dell'anima a librarsi nei cieli, liberandosi dalle pastoie della stessa drammaturgia), si avvicina via via ai due più tardi capolavori: Otello e Falstaff. Otello è qui considerato come un'opera autobiografica, l'opera che condensa il dramma essenziale del vivere o morire, attraverso il sentimento umano, umanissimo della gelosia, quale atto d'amore. Falstaff, come il Parsifal, è una preparazione alla morte: ma Savinio vi vede non un'uscita, bensì un ingresso nel grande ritmo dell'universo. Si ripropone allora il confronto tra Wagner e Verdi proprio in questa forma di "estrema unzione" della propria opera e ciò accade non in astratto, ma attraverso un discorso tecnico, di tonalità: il Lab maggiore del Parsifal (tonalità della crema, tonalità del lattemiele) contro l'asciutto Do maggiore, decoroso e elementare, da disegno.
Neppure lui si conosceva. E giudicando la sua musica secondo criterio musicale, le dava appena dieci anni di vita.
Eppure le altre musiche morranno ma la sua continuerà a vivere. Perché non è staccata dal mondo come le altre e sterile, ma plasmata e riplasmata con forti e grosse mani di rurale, impastata con gli elementi stessi della terra: il bene e il male della terra, il suo amore e il suo odio, la sua dolcezza e la sua crudeltà, la sua stupidità, la sua indifferenza, la sua pazzia. (Narrate, uomini, la vostra storia, p. 157)