When I was a little kid my mother told me not to stare into the sun. So once when I was six I did. tweet
Shelter degli Alcest, uscito quest’anno, è stato registrato in Islanda: ci sono archi suonati da personale dei Sigur Rós (e delle Amiina) e la produzione è di Birgir Jón Birgisson, che si è occupato a lungo proprio di Jónsi e soci, ma anche – insieme ad altri – dell’ultimo Spiritualized. In “Away”, c’è un ulteriore ospite di lusso, quasi a chiudere un cerchio: Neil Halstead degli appena riunitisi Slowdive. In pratica, gli Alcest fanno un gesto “estremo”, dismettono il black metal e sviluppano il discorso shoegaze, mettendo tra l’altro platealmente le carte in tavola, in una fase in cui arrivano – molto tardi, rispetto a loro – altre band pesanti e altre etichette a sedersi per mangiare e le possibili riletture (imitazioni, a volte) di quegli anni Novanta inglesi non sorprendono più nessuno.
Neige effettua un’operazione legittima: porta con sé determinate influenze da sempre (mai sentiti gli Amesoeurs?), ha la possibilità di confrontarsi con musicisti che prima non poteva nemmeno raggiungere e realizza un disco che magari aveva in testa da tempo. Chiunque ascolti certa musica, però, sa le sofferenze che molti gruppi metal hanno causato ai loro fan quando hanno deciso che era l’ora di “evolversi” (termine osceno & sbagliato), alcune delle quali davvero atroci, e in modo altrettanto legittimo può porre problemi qualitativi, di identità/coerenza o di originalità perdute. Per fortuna (o per consolazione) non siamo distanti, in questo caso, da quanto fatto dai Marlene Kuntz quando hanno potuto lavorare – piuttosto che con Skin, che non c’entrava un cazzo – con artisti come Rob Ellis e, nel mezzo di una seconda parte della loro carriera nient’affatto priva di cadute, tirar fuori un album eccellente come Bianco Sporco, perché Cristiano Godano e gli altri, quel tipo di melodie e “canzoni”, le avevano sempre avute nel sangue, anche agli esordi catartici. Per Shelter vale lo stesso discorso, cioè che ci sono buonissimi pezzi, la cui appartenenza al repertorio degli Alcest è chiara, anche se non subito palese: “Opale”, d’una spensieratezza che nessun adulto ha più, “Voix Serene”, quasi panteistica, o ancora “L’eveil Des Muses” e le sue fitte di dolore. A fine ascolto, poi, rimane l’idea che vincenti non siano i musicisti aggiunti e gli arrangiamenti, ma proprio le melodie di Neige, con o senza il belletto della produzione. Certo, è un modo di porsi troppo soggettivo, per carità, dato che è molto più “scientifico” o “storicizzante” scrivere che il valore degli Alcest sta soprattutto nell’essere andati a vedere in che modo black metal e shoegaze potevano fondersi assieme. Tutto ok, va benissimo così. Comunque, per adesso – scusatemi tanto – fisso quel sole in copertina senza pensare che mi brucerò la vista.
Dato che passeranno in Italia, abbiamo avuto la possibilità di spedire qualche domanda a Neige, cosa che di rado non facciamo mai così “al volo”, ma così facendo abbiamo colto l’occasione di parlare anche del disco. Come vedrete, quando ho toccato il tasto dolente, non se n’è manco accorto.
Shelter mi fa pensare di continuo a una parola: “adolescenza”. Sembra che tutto provenga da lì sin da Souvenirs D’Un Autre Monde…
Neige: Vero, l’infanzia e l’adolescenza sono sempre state importanti all’interno dell’universo Alcest. Per quanto mi riguarda, conservo un ricordo “meravigliato” di quei due periodi, quelli in cui l’individuo si costruisce ed è, appunto, continuamente capace di stupirsi. Inoltre, a un livello più spirituale, penso che sempre durante l’infanzia e la prima adolescenza noi abbiamo accesso a forme più sottili di percezione, un accesso che perdiamo una volta diventati adulti.
Sigur Rós e Slowdive. La prima volta che ho letto della loro “presenza” (degli islandesi direi che c’è l’entourage, degli Slowdive proprio Neil Halstead) nel tuo disco, ho subito pensato ‘sta riannodando tutto’. Hai avuto la stessa sensazione o eri solo felice di avere finalmente la chance di mettere in piedi collaborazioni così importanti?
Di sicuro esistono una certa coerenza e un legame tra queste diverse collaborazioni. Quei due gruppi sono tra i più onirici ed eterei della scena musicale degli ultimi vent’anni, quindi per me è stato pazzesco essere associato a loro. Pur se in modo differente, la musica degli Alcest è altrettanto eterea e nostalgica.
Non c’è black metal in Shelter. Ti sei sentito un po’ come Linus senza la coperta?
Non mi faccio delle domande mentre compongo, non mi chiedo se un album debba appartenere a un genere o a un altro, se piacerà a questa o a quella persona. Non ci sono compromessi nell’arte e penso che sia necessario creare per se stessi prima di tutto, e fare qualcosa che ci assomigli. Non ci sono barriere stilistiche per Alcest ed è qualcosa che apprezzo nel momento in cui scrivo i pezzi.
Riguardo la copertina, la foto è stata scattata su di una spiaggia nel sud della Francia, vicino ai luoghi dove sei nato. Non sembra il pianeta Terra. “Mon coeur appartient à la mer”, canti. Sembra che ti aiuti a perdere te stesso…
Ho passato molto tempo in quel luogo ai bordi del mare da giovane, anche adesso cerco di tornarci il più spesso possibile. Come dici tu, là mi sento felice e libero, c’è molto sole, molta luce. Mi piace sedermi sulla spiaggia e guardare per ore il movimento delle onde, mi fa stare bene. Ho un legame forte in generale con il mare.
State per suonare qui in Italia (al Rockascalegna vicino Chieti, il 2 agosto, al Metalcamp siciliano il 12, a Castellina Marittima il 17). Ti ho visto solo una volta dal vivo, quando eri “curatore” del Roadburn Festival 2013. Uno show bello, sullo stage principale dell’evento. Ti piace così, anche con sound system grossi, o di solito preferisci luoghi più piccoli?
Nel nostro caso il luogo non è importante, adoriamo suonare tanto a festival immensi quanto in piccoli club, dipende tutto dalle reazioni del pubblico e dalla nostra performance in se stessa. Detestiamo uscire di scena sapendo di non aver suonato bene quanto in realtà avremmo potuto, siamo molto perfezionisti.